Roma Termini, ore 11 e poco più del mattino. Il solito delirio di viaggiatori e passanti. Era partito da Potenza alle 7:38 con il Frecciarossa. Si meravigliò nel vedere tutta questa gente che, dalla Stazione Centrale, partiva per Roma, Firenze, Bologna o Milano, chi per lavoro o chi per vacanza. Nell carrozza con lui c’erano numero 6 politici, uomini d’affari, giornalisti, registi e scrittori provenienti da Matera. Si sistemò, tirò fuori dallo zaino il computer ed un taccuino, e si mise a leggere notizie del giorno e post su Facebook. Prese un caffè al bar del treno – tra le cose peggio bevute in vita sua – poi, quasi per contrappasso, andò a cercare su Google un vecchio articolo scritto da Domenico Quirico sul ciclismo, nel 2014. Lo leggeva spesso, lo aveva praticamente imparato a memoria per quanto era bello e pieno di poetica. Per lui, così come per tutti, il ciclismo restava uno sport pieno di romanticismo e bellezza, fatto di fatica solitaria e di epicità.
C’era un passaggio dell’articolo di Quirico, che se avesse avuto più coraggio se lo sarebbe fatto tatuare: “La strada, oggi come al tempo degli altri italiani vincitori del Tour, sta su per scommessa, in un mondo di morte, una catena di pietre secche, senza il lampo di un fiore, una bava di acqua; è un paradiso di lucertole. La montagna è il luogo delle retoriche deboli. Il luogo delle verità nude, e dei miti. I «grimpeur», gli scalatori come Nibali, Bartali, Pantani, sono i soli ciclisti che soddisfano filosoficamente alle condizioni della proposizione vera. Il passista, lo sprinter emergono dalla cacofonia, cercano il guizzo dell’ultimo che parla e ha ragione. Lo scalatore no, lascia il fardello della vita comunitaria, del «peloton», si arrischia, va nel vuoto, vede il cielo attraverso i pedali” *.
La solitudine era sempre stata una cifra della sua esistenza, cercata più volte come consolazione o come difesa dalle aggressività del tempo e delle volgarità umane. Come uno scalatore, ma senza bicicletta, aveva sempre scelto di staccarsi dal gruppo, di allontanarsi dalla massa, per poter correre con il suo passo e scalare le montagne, anche le più impervie. Forse era per questo che aveva accettato questo trasferimento a Potenza perché da solo riusciva a stare bene e dare il meglio. Da questo punto di vista Roma gli permetteva di isolarsi, ma non di pedalare con il suo passo. Per lui i migliori racconti su Roma li avevano fatto Remo Remotti, con la sua “Mamma Roma Addio”, Ennio Flaiano e Paolo Sorrentino, nel film “La Grande Bellezza”, quando fa dire alla radical chic Stefania: “Roma, comunque, è l’unica città al mondo dove si è pienamente compiuto il marxismo.
A Roma non puoi spiccare sugli altri per più di una settimana, poi ti riportano subito nell’aurea mediocritas. Roma…è collettivismo puro!”. Ma Roma era la sua città, la sua seconda pelle, e lui sapeva benissimo che non ci si separa mai da sé stessi: come i serpenti si può cambiare pelle, ma le radici resteranno per sempre conficcate nel terreno che ci ha generati. C’era da affrontare il ritorno in città, le riunioni di lavoro con il capo per presentargli i report delle attività svolte in Basilicata, la festa di compleanno dei nipotini gemelli e soprattutto Veronica.
L’aveva conosciuta un pomeriggio d’autunno, in una libreria di via Frattina, durante la presentazione di un libro scritto da un giornalista americano corrispondente in Italia per una grande testata internazionale. Non era stato un colpo di fulmine, almeno da parte di Veronica, perché solo dopo un paio di mesi da quell’incontro era riuscito ad invitarla fuori a cena. In verità l’invito era per un aperitivo, a piazza di Pietra, che si era allungato fino alla cena.
Il primo bacio? Dopo due settimane. Perché? Perché Veronica, che aveva già un matrimonio alle spalle, era tornata a vivere da un anno a Roma ed era ancora alle prese con il trasloco dalla casa di Milano, dove si era trasferita a vivere con il suo ex. Traslocare è sempre una fatica immane, figuriamoci dopo appena tre anni di matrimonio.
Solo dopo qualche tempo Veronica gli confidò le ragioni della sua separazione, che non erano solo legate al tradimento del suo ex con la sua migliore amica, ma ad un sentimento che forse si era consumato già tempo prima del fatidico sì. Da allora Veronica viveva ogni relazione con la paura che tutto potesse finire da un momento all’altro. Normale, di questi tempi così acerbi e precari, accentuato se vieni fuori da un divorzio e la fine di un’amicizia ventennale così come era successo a lei.
Di Veronica, però, gli piaceva quasi tutto.
Riccia e castana, con la carnagione mediterranea, dalla battuta facile e con un’intelligenza vivissima. In comune avevano molte cose, dall’amore per la serie tv Lost a quello per gli scrittori nord americani. Lavoravano nello stesso settore, quello delle pubbliche relazioni, solo che lei era decisamente più brava di lui. Portava spesso degli occhiali da vista tipo nerd, quelli con la montatura nera abbastanza evidente e tornati di moda negli ultimi anni.
C’era una sola cosa che li divideva, più delle altre: il calcio. Lei della Lazio e lui della Roma. Quella finale di Coppa Italia del 26 maggio ancora se la ricordavano entrambi! Per fortuna che, nel tempo, il loro rapporto gli aveva dato molti altri argomenti per superare questa conflittualità, che solo se capisci il calcio e sei di Roma, puoi capire davvero. Come ogni persona con delle cicatrici evidenti, Veronica richiedeva più cure e più attenzioni del solito. Lui non ne sentiva il peso, in fondo era innamorato di lei, e i primi tre anni del loro rapporto erano stati completamente dedicati a lei ed ai suoi bisogni. Sapeva che, una volta guarite le ferite, Veronica sarebbe tornata ad essere la ragazza che tutti i suoi amici gli raccontavano: forte, generosa, gentile, amorevole, determinata e coraggiosa. Una persona così, al fianco di un pragmatico sognatore come lui, sarebbe stato il giusto contrappeso, necessario per fare passi in avanti nella vita di coppia e nella crescita del singolo.
Alla fine dei tre anni ci arrivò stanco, con le pile scariche, senza più quell’ardore e quella pazienza che lo aveva animato in tutto questo tempo. Era arrivato di momento di chiudere, ma come? La dura verità è spesso migliore di una dolce bugia ma non le voleva fare del male. Aveva già sofferto troppo in vita sua e certamente non meritava altro dolore. Era combattuto, in lotta con sé stesso e con il maledetto senso di colpa che non lo lasciava mai in pace. Come devo fare? Cosa le devo dire? si ripeteva spesso. Lo aveva fatto anche durante il viaggio in treno, forse per questo inconsciamente aveva riletto quel passaggio di Quirico sulla solitudine dello scalatore ma qui la montagna era più alta del solito e lui non aveva né la forza e né il coraggio di salire sui pedali e staccarsi da lei.
Prima di tornare a casa sua decise di passare a trovare sua madre e suo padre, che vivevano a Monte Sacro. Aveva con sé un sacchetto con dei peperoni cruschi già fritti e pronti per essere mangiati e dell’ottimo aglianico di Maschito da far assaggiare al padre. Si fermò fino al pomeriggio dai suoi, poi se ne uscì e si diresse verso casa sua. Erano le 17 e Veronica sarebbe rincasata dal lavoro verso le 19. Aveva tutto il tempo di prendere fiato e cercare le giuste parole. Puntuale Veronica arrivò. Era quello il tempo della verità. Se non ora, quando?
*(“Da Bottecchia a Pantani, quando “les italiens” scalano la leggenda”, Domenico Quirico su la Stampa, 27/07/2014).