Aveva conosciuto Anna un giovedì sera al cinema. Entrambi erano andati lì da soli, a vedere lo stesso film. Il destino, la cassiera bionda, ed una sala non proprio pienissima, vollero che i due fossero seduti nella stessa fila, un posto accanto all’altro. Lui aveva questa abitudine di andare al cinema in solitudine, lo faceva spesso perché ogni film, per lui, era un’esperienza da vivere a pieno, in silenzio, senza gli inutili commenti pre e post film. La passione per la settima arte l’aveva ereditata da sua madre, sceneggiatrice di fiction televisive, con un passato da regista di teatro. Anche lei, così come lui, aveva un rapporto esclusivo con i film e le sale cinematografiche, tant’è che sceglievano sempre, con accuratezza, i giorni giusti quando andarci. Quella sera erano lì per vedere l’ultimo film di Allan Stewart Königsberg, meglio noto come Woody Allen. Inchiodati alla poltrona, esattamente così si sentiva mentre le immagini scorrevano e le storie dei personaggi si intrecciavano e si distendevano lungo lo spazio ed il tempo della narrazione. Un film dai colori caldi, quasi a fare da contrasto con le vite dei personaggi, dove a fare da asse ottico è la storia, le storie, la paura, il senso di colpa e la solitudine. Sono molto soli i personaggi, anime dilaniate della paura, dal cinismo del rischio, dalla ferocia dei tempi della solitudine. Spesso Allen, con la sua comicità raffinata, ha dipinto personaggi complessi dalle personalità estreme e dilaniate. Forse per questo, almeno per lui, ogni suo film era una buona occasione per riflettere su sé stesso, il senso della sua vita, il tempo che inesorabilmente correva. A poco meno dai 40 anni, iniziava già a fare i conti con molti aspetti della vita adulta a cui nessuno è mai pronto. Le difficoltà di tutti i giorni, il coraggio delle scelte, la rinuncia ai sogni, il lavoro duro e quasi mai ben ripagato. C’era anche un altro elemento a legarlo con il regista nato a Brooklyn, l’origine ebraica, ma che non ha mai influito più di tanto nella sua cultura, se non per la scelta dei libri da leggere, privilegiando sempre gli ebrei americani.
Ma in quella sera, quella sera di giovedì, c’era un’atmosfera diversa. Forse per il profumo di Anna, francese, o forse per la colonna sonora del film, molto jazz, ma in più di un’occasione, con la scusa di prendere la bottiglietta dell’acqua, riposta nel porta oggetti della poltrona, che entrambi si sfiorarono le mani e lo sguardo.
A fine film non sapeva cosa fare. La saluto? Le chiedo un commento sul film? Magari è qui da sola perché non vuole rotture? Meglio non importunarla, non vorrei fare un brutta figura. Ma quando la rivedrò? E chi è? Ha gli occhi bellissimi ed una pelle bianca e morbida, sembra un disegno. Quanto è bella!
Dopo mille domande, nel giro di pochi secondi, alla fine si convinse e l’avvicinò con una scusa banalissima:” Scusi, ricorda per caso qual è il titolo della canzone che viene citata nel film?” “Si, è I fall in love too easly, ma non so se nella versione di Chat Baker o di altri”
“Grazie. Le è piaciuto?”
“ Devo dire che ho visto di meglio, ma Allen è sempre una buona ragione per uscire di casa ed andare al cinema”
“Già, ha ragione”
“A lei è piaciuto?”
“Devo dire che ci sono diversi punti di caduta, ma nel suo complesso è un film gradevole. Poi, da quando sono qui, ascolto molto jazz…”
“Non è potentino?”
“ No, sono di Roma. Sono qui per lavoro da diversi mesi ormai”
“Lo dice con una certa tristezza…”
“No, affatto. Qui sto bene, ma capirà bene che Potenza non è Roma…”
“Lo so bene, fino alla scorsa settimana lavoravo lì, poi non mi hanno più rinnovato i contratto e me ne sono tornata qui a casa…”
“Mi spiace”
“Cosa vuole che sia, è questo tempo acerbo che somma solo tentativi e fallimenti, prima di conoscere il cielo azzurro”
“Riesce a trovare la poesia anche in un momento così complesso, che bello”
“E’ un mio vizio, o forse una mia virtù”
“Senta, ma se continuassimo questa conversazione davanti ad un bicchiere di buon vino?” “Mi farebbe piacere, ma questa sera non posso. Magari qualche altra volta… E diamoci del tu!“
“Certo, hai ragione. Ma non mi hai detto il tuo nome.”
“ Mi chiamo Anna”.
“Allora a presto?”
“Si, sentiamoci presto. Tanto appena usciremo da qui mi farai la richiesta di amicizia su Facebook, non è vero?”
“ Eh…si…io…”
“Tranquillo, almeno ci siamo già conosciuti!” .
Se ne andò verso la macchina, lasciandogli addosso la curiosità, un sorriso inebetito, e la voglia di rivederla ancora. Arrivato a casa, si preparò la cena e mise su uno ei suo album preferiti, “Casa”. Le note di Sakamoto e dei due Morelembaun iniziarono a risuonare calde, riempiendo l’appartamento di atmosfere lontane e sudamericane. Ma ogni nota, ogni strofa, ogni canzone lo riportava in quel cinema e a gli occhi verdi di Anna. Il giorno dopo, con calma, le inviò la richiesta d’amicizia su Facebook. Tre ore dopo, erano già al ventesimo messaggio scambiato. Quattro giorni dopo erano già seduti allo stesso tavolo, a mangiare sushi e a raccontarsi sogni e ambizioni, tra un sorriso gentile ed un bicchiere di vino. Anna, la ragazza che stava studiando per diventare magistrato, era già entrata nel suo cuore e nei suoi pensieri più belli. Lui la lasciò entrare senza opporre alcuna resistenza. Qualcosa di nuovo era successo, lo sapevano entrambi. Lo si leggeva chiaramente nei loro occhi.