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Letto Omelia di Natale di mons. Davide Carbonaro: “Ti chiediamo questa sera Signore tacciano le armi e torni la pace, quella che tu disegni nel cuore dell’uomo”
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Omelia di Natale di mons. Davide Carbonaro: “Ti chiediamo questa sera Signore tacciano le armi e torni la pace, quella che tu disegni nel cuore dell’uomo”

"Torniamo a narrare storie, a raccontare il Vangelo dentro il nostro convenire stanco, stressato, paralizzato dai social"

Redazione Web 26 Dicembre 2024
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Giovedì 26 dicembre 2024 – Celebrando la messa la notte di Natale nella chiesa cattedrale di Potenza, mons. Davide Carbonaro, Vescovo Metropolita di Potenza Muro Lucano e Marsiconuovo e presidente della Conferenza Episcopale di Basilicata, ha offerto spunti di riflessione sul messaggio che giunge dalla grotta di Betlemme che s’illumina della luce del Cristo Redentore.

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Il testo dell’omelia

“È stato lungo il viaggio che Maria e Giuseppe hanno dovuto compiere da Nazareth, nord della Galilea, fino a Betlemme la città del re Davide, il piccolo re pastore. La tradizione della Chiesa di Gerusalemme ci informa che vi furono delle soste, nelle quali Giuseppe si prese cura della puerpera. In questa notte santa anche noi sostiamo come la santa famiglia, gravidi della vita divina che ci è stata donata nel Battesimo, davanti alla nostra storia, a questa umanità bisognosa di Mistero.
Anche noi come Maria e Giuseppe ci troviamo a bussare tra le case, perché il Vangelo possa essere nuovamente partorito e trovare dimora, ma non c’è posto alle volte nel cuore dell’uomo, per quella Parola che salva.
Nella notte del Natale e nella notte dell’Apocalisse, quando il Signore verrà alla fine dei tempi, egli starà dietro la nostra porta e busserà, perché possa cenare con noi. Tra la prima venuta storica di Gesù ed il suo ritorno nella gloria, noi celebriamo l’Eucarestia, la memoria viva della Pasqua; ci raduniamo nelle nostre notti, perché sorga l’alba di un nuovo giorno. Ed è nel cuore delle nostre notti che si alza un grido: “Ecco lo sposo andategli incontro”.

È il grido di speranza che la Chiesa coltiva dentro l’inesorabile scorrere del tempo e della storia. Il silenzio della notte di Betlemme fu rotto dal grido di un bimbo, come il velo del tempio fu squarciato dal grido dall’uomo crocifisso. È il dramma della vita umana che nasce e che muore. Questa vita, ogni vita, dalla notte di Betlemme alla notte della Pasqua, appartiene a Dio, all’Uomo Dio. Nel mio corpo fragile, mortale, passa la vita di Dio, ecco perché Papa Leone Magno ogni anno ci ricorda: “Cristiano riconosci la tua dignità”. E gli fa eco Ireneo di Lione affermando che: “Gloria di Dio è l’uomo vivente e vita dell’uomo è gloria di Dio”.

Non c’era posto nel kataluma per il bambino che stava per nascere a Betlemme, così ci informa l’Evangelista Luca. Il kataluma, che traduciamo impropriamente alloggio, albergo, era quella parte spesso in muratura antistante la porta delle piccole case di Betlemme, costruite nella e sulla roccia. Generalmente lì dormiva il capo famiglia insieme con i figli.
Nella parabola che Gesù racconta dell’amico che bussa nella notte per chiedere del pane per un amico, gli viene risposto dal capo famiglia, che non può aprire la porta perché si trova a letto con i figli.
Insomma, la camera da letto era sulla soglia della porta. Non c’è posto lì per Maria che sta per partorire.

Ancora oggi non c’è posto per Gesù nelle nostre famiglie, lo abbiamo rilegato fuori dalle nostre relazioni, ne abbiamo fatto un idolo dei nostri bisogni. Non c’è posto per lui nel quotidiano, siamo affannati e preoccupati di educare e coltivare il nostro presente ed il nostro futuro, come se Dio non esistesse. Ma lui dentro questa indifferenza di ieri e di oggi, nasce lo stesso. È l’ostinazione dell’amore divino per l’uomo, per questa umanità sorda e disorientata.

Per Gesù dice Luca c’è posto invece nel presepe, nel ricovero degli animali. Come se ci volesse dire che Dio nel suo nascere, sta riportando la nostra umanità a quel sesto giorno della creazione, quando l’uomo fu fatto dall’Altissimo insieme alle bestie della campagna. Sostiamo anche noi in questi giorni davanti alla semplicità del presepe, per riconoscere la nostra origine, chi siamo, da dove veniamo dove andiamo.
Il presepe è crocevia di cammini che si caricano di speranza, che riempiono il cuore di gioia e di attesa. I pastori guidati dal Vangelo degli angeli, i Magi accompagnati dalle scritture celesti. Nel presepe ritroviamo la nostra vera relazione con Dio con noi stessi e con gli altri. Dedichiamo tempo alla contemplazione, all’ascolto, all’incontro.
C’è uno stupore da coltivare, ci sono carezze da donare sui visi rugosi dei nostri nonni.
C’è una immersione da fare negli occhi limpidi dei nostri figli e delle nostre figlie.

Torniamo a narrare storie, a raccontare il Vangelo dentro il nostro convenire stanco, stressato, paralizzato dai social. Passiamo dalla frenesia dei doni al dono di noi stessi per gli altri. Dedichiamo più tempo alle relazioni, coltiviamo amicizie, sentiamo i bisogni degli altri come i nostri bisogni. Insomma, torniamo a dire che c’è posto per l’umanità dentro la nostra umanità. Torniamo a prenderci cura dei fragili, dei precari, degli ultimi. L’altro è mio fratello, l’altro è la fragile carne assunta dal Verbo.

Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoria ci ricorda Luca. Egli infatti è colui che viene a fasciare i cuori feriti a proclamare l’anno di grazia e di misericordia avverte il Profeta. Le fasce avvolgono il piccolo bambino di Betlemme come la luce avvolge la ruvida e precaria vita dei pastori.
Lasciamoci avvolgere anche noi dalla grazia e dalla misericordia divina. Si apre per la Chiesa un tempo di giubilo e gratitudine nel quale dobbiamo ritornare al cuore, tornando ad esercitare il perdono dato e ricevuto. Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. L’unico debito che abbiamo nei confronti degli altri è l’amore. Un amore vero, solido che possiamo attingere da colui che ci ha amato e ha dato sé stesso per noi. Abbiamo anche un debito nei confronti della terra, di nostra madre terra, che ci sostenta e ci alimenta. Dalla nostra terra è germogliato il fiore più bello dei nostri fiori.
Torniamo a prendere consapevolezza dell’inestimabile dono della nostra casa comune. La terra e i beni della terra appartengono a tutti, sono regolati da quella giustizia di Dio che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Restituiamo alla terra il riposo, smettiamo di abusarne, violentandone i ritmi e l’armonia intelligente voluta dal Creatore.

Chiediamo in questa notte santa nella quale Dio ha rotto i confini ed è entrato tra le pieghe della nostra fragile carne, che l’umanità smetta di avere confini segnati da guerre e conflitti infiniti. Siamo stanchi del ritardo ostinato di fraternità universale; stanchi del pianto dei bambini e degli anziani; stanchi di quell’odio che si arma perché venga garantito il profitto di pochi, sul bisogno e la libertà di molti.

Ti chiediamo questa sera Signore tacciano le armi e torni la pace, quella che tu disegni nel cuore dell’uomo.
Ferma l’orrore delle guerre che l’odio fratricida accende in ogni angolo della terra e sostieni quanti sono preposti ai destini umani con il soffio del tuo Spirito che non ha confini. Come sorge il nuovo giorno, così sorga per questa nostra umanità un tempo di riconciliazione e di pace che solo tu puoi condurre alla sua pienezza”.

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