Venrrdì 3 giugno 2022 – Condannati a 20 e 19 anni di reclusione, rispettivamente, il presunto
boss melfitano Sergio Cassotta, e il nipote acquisito Giuseppe Caggiano.
Mentre il pentito Giuseppe Cacalano dovrà scontarne soltanto 9.
Assolti il fratello del boss, Massimo Aldo, più Michele Morelli, Donato Prota, Luciano Grimolizzi, Simone Battaglia.
Prosciolti per prescrizione Alessandro Sportiello, Nicola Fontana e Donato Sassone.
E’ questo il verdetto pronunciato dal collegio del Tribunale di Potenza presieduto da Rosario Baglioni al termine dell’ultimo processo al clan melfitano dei Cassotta.
I giudici hanno rivisto al rialzo le richieste per i tre condannati. A novembre, infatti, il pm antimafia Gerardo Salvia aveva chiesto soltanto 15 anni e 6 mesi di reclusione per
Cassotta, assistito dagli avvocati Michele Mastromartino e Mariano Scapicchio, 12 anni e 6 mesi per Caggiano, e 6 anni e 9 mesi per il 30enne pentito Giuseppe Cacalano, assistito da Enrico Tucci.
Sono cadute, invece, le accuse per altri 4 imputati per cui il pm aveva chiesto una ichiarazione di colpevolezza: Massimo Cassotta, assistito dagli avvocati Mariano Scapicchio e Salvatore Laguardia, che rischiava 10 anni di carcere; più Morelli (già condannato in via definitiva per due degli omicidi della faida tra clan del Vulture, ndr), che è stato assistito dall’avvocato Michele Mastromartino, Donato Prota, assistito dall’avvocato Giuseppe Colucci, e
rimolizzi, assistito da Colucci e Mastromartino, per cui erano stati chiesti 7 anni
di carcere.
Per Battaglia, assistito da Scapicchio, il collegio ha accolto la proposta di assoluzione avanzata dall’accusa. Come pure la richiesta di proscioglimento per prescrizione di Sassone, Fontana e Sportiello, assistiti dagli avvocati Antonio Murano, Mastromartino, e Colucci.
Nel dispositivo pronunciato in aula, le accuse per cui è stata pronunciata sentenza di condanna sono indicate nell’associazione per delinquere di stampo mafioso, il tentato omicidio, a ottobre del 2010, di Angelo Muro, boss dell’omonimo clan rivale dei Cassotta, e il possesso illegale di
varie armi «comuni e da guerra». In particolare tre pistole, un Kalashnikov e una
mitraglietta non meglio precisata.
Altra accusa per cui è scattata la condanna è l’estorsione al titolare di una pizzeria, che a causa delle sue resistenze al pagamento di 400 euro per la “protezione” che gli era stata offerta, si sarebbe visto appiccare un incendio all’ingresso dell’attività. Di qui la sua decisione di «abbandonare Melfi e trasferirsi al Nord Italia».
I due fratelli Cassotta e Cacalano, invece, sono stati assolti dall’accusa di estorsione ai danni
del sindaco di Melfi, Giuseppe Maglione, che secondo gli inquirenti aveva pagato al clan 3mila euro in contanti e l’assunzione nella sua ditta della moglie del boss Marco Ugo Cassotta, e del fratello della moglie di Massimo, erede della guida del clan dopo l’omicidio del primo nell’estate del 2007.
L’inchiesta che ha portato al processo arrivato ieri a sentenza era stata condotta dalla sezione anticrimine della Squadra mobile di Potenza, e soprannominata “Tandem”.
Alla base degli accertamenti c’erano, in particolare, le dichiarazioni rese nel 2012 da due collaboratori di giustizia, Adriano e Giuseppe Cacalano, padre e figlio, a cui in seguito si è aggiunto anche Erio Loconsolo.
Fonte: Leo Amato “Il Quotidiano del Sud”