Venerdì 5 marzo 2021 – Secondo appuntamento con i racconti di Mimmo Guaragna, con i quali si apre lo scrigno dei ricordi di tempi che furono.
LA TAZZINA DI CAFFE’
Quella mattina mamma pensò di fare una cosa gradita; non le era mai passato per la testa di portarmi il caffè a letto, ma c’è sempre una prima volta. Dormivo ancora, mi accarezzò la fronte, aprii gli occhi; mi ritrovai assediato dalle pareti della stanzetta e d’istinto feci un balzo: il caffè mi piovve addosso, macchiò il cuscino e le lenzuola, e i cocci si erano sparpagliati sul pavimento.
Ero arrivato a casa di mia madre che era già notte. Quando alla Prefettura di Trapani mi avevano chiesto per quale destinazione dovevano fare il biglietto stavo per rispondere Milano, dove c’era un amore di ragazza che probabilmente mi aspettava, però alla fine optai per una visita ai miei familiari. Il viaggio era stato lungo, sembrava che la Sicilia non finisse mai. Mi affliggeva un pensiero irrazionale, avevo come un presentimento che la terra per l’ennesima volta si dovesse ribellare e la fantasia accentuava l’apocalissi di un nuovo terremoto che già sentivo ribollire sotto i piedi con il treno che vibrava sulle rotaie. Dopo settimane passate tra un susseguirsi di scosse, ogni spazio chiuso lo vivevo come una trappola; mamma non avrebbe potuto prevedere la mia reazione nello svegliarmi accerchiato dalle pareti domestiche.
Da pochi giorni erano trascorse le vacanze di Natale; la radio aveva dato la notizia che la Valle del Belice aveva tremato; mi raggiunse la telefonata della Prefettura, avevano già deciso tutto, mi toccava soltanto eseguire. Mi avevano messo a disposizione un camion per caricare il materiale del Servizio Civile Internazionale che io avevo in custodia, sarebbe stato trasbordato su un carro merci in attesa alla stazione e io lo avrei accompagnato in Sicilia.
Formalizzata a Trapani la consegna del carico, mi aggregarono ad una squadra e raggiunsi Gibellina. I paesaggi che lascia il terremoto dopo il suo passaggio hanno qualcosa di straordinario, sembra che se la sia presa soltanto con le opere umane: le abitazioni sventrate che ti permettono di entrare nella intimità della vita delle persone. La casa, il luogo dove noi ci rifugiamo e ci confida sicurezza, diventa il peggior nemico. Le miserie e gli egoismi slacciano i freni inibitori, mentre persone fino ad allora insignificanti compiono atti di coraggio e di altruismo.
Ci misero a sistemare la tendopoli. Mi imbattei in un ragazzo che dava un po’ di testa. Continuava a ripetere, e non si dava pace, che subito dopo la prima scossa in piena notte, nel pandemonio che ne era seguito una giovane donna aveva partorito nella situazione precaria che è facile immaginare. Gli avevano affidato il bambino ancora con il cordone ombelicale penzolante, e come tutti i neonati strillava, si era azzittito, se lo era visto morire tra le braccia, lo aveva ammazzato il freddo. Eravamo in Sicilia, ma proprio in quel frangente a complicare le cose si era fatta viva anche la neve.
Rimpiangevo l’alluvione di Firenze, lì c’era tanto fango da spalare però giorno dopo giorno si ritornava, seppure a fatica, nella normalità; qui invece sembrava che il terremoto non dovesse finire mai. Si arrivava stanchi a sera, eravamo accampati insieme ai militari e ai vigili del fuoco. Passavamo qualche ora a chiacchierare intorno a un falò in compagnia della grappa di caserma. Qualche giorno capitava che dimenticassero di portarci il rancio e badavamo allo stomaco con le galline che vagavano senza più un padrone, si spennavano e si arrostivano su una rete metallica. I volontari si dividevano in tre tipologie: i buoni, i compagni e i fascisti, per questi ultimi (e anche per una frangia di compagni) questa esperienza si viveva come propedeutica all’addestramento militare. Le attitudini al cameratismo nascevano spontanee e si attenuavano le differenze ideologiche, sempre con la riserva che sarebbe venuto il momento per saldare i conti. Gli unici screzi a cui mi capitò di assistere si ebbero tra alcuni vigili del fuoco e qualche sottufficiale dei carabinieri. Ormai per me era così lontano il lavoro nel magazzino della periferia milanese, con la noiosa ripetizione dei soliti orari e delle mansioni preordinate.
Su un muro diroccato mi slogai una caviglia e non riuscivo a poggiare il piede. Per alcuni giorni svolsi un lavoro d’ufficio; mi dovevo occupare di riempire i pulman che avrebbero trasferito i bambini nei vari istituti di Palermo e delle altre città fuori dal raggio della zona sismica. Le mamme si volevano imbarcare con i propri figli, ma non c’era posto per loro. Il mio compito era di catalogare ogni singolo bambino, mettergli al collo un cartellino compilato con tutti i suoi dati e dare una copia al genitore, o a un parente o a chi se ne prendeva cura registrando i loro documenti. Far salire i bambini a bordo era un inferno: i grandi che urlavano, i piccoli che piangevano, le mamme che piangevano e strillavano avvinghiandosi ai pargoli e non mi risparmiavano le minacce e le maledizioni. Mi toccava strappare i figli alle mamme mentre gli autisti avevano fretta e strombazzavano con i clacson a tutto volume. Soltanto in seguito mi resi conto che avevo fatto un lavoro infame da farmi odiare; mentre strattonavo, respingevo le mamme, davo ordini urlando e spingevo i bambini oltre lo sportello del pulman, non me ne rendevo conto, come se stessi a muovermi tra gli scaffali del magazzino milanese.
La caviglia più o meno guarì e potei ritornare alle mie macerie. Venne a piovere, la mia squadra si riparò sotto un arco, si scherzava approfittando della pausa per fumare una sigaretta. Ci sorprese un boato e una scossa molto forte. L’arco crollò, io per mia fortuna stavo all’estremità e fui proiettato fuori; la tuta era a brandelli, il volto era insanguinato e avevo perduto il casco. Fu istintivo, non ci pensai, corsi a soccorrere gli amici rimasti sotto l’arco; del pompiere di Latina con cui un minuto prima stavo scherzando mi ritrovai la testa spaccata ed il cervello e il sangue che venivano fuori: lasciava la moglie e i figli. “Pensate ai feriti, poi vediamo il resto”, eseguii l’ordine che veniva intimato dal maresciallo accorso sul posto. Mi caricai sulle spalle un uomo che si lamentava per le ferite; si azzittì, raggiunsi lo spiazzo dove cominciavano ad atterrare gli elicotteri del soccorso, poggiai a terra il mio carico, un medico diede uno sguardo ”è morto, non c’è più niente da fare”.
Eravamo tutti sballottati, più che impauriti, inebetiti, questa brutta scossa non ce l’aspettavamo. La terra riprese a tremare ancora forte; alcuni carabinieri, stravolti dal terrore, corsero a ripararsi sotto un muro e gli urli e gli spari in aria della pistola del loro capitano a mala pena ebbero l’efficacia di allontanarli dal pericolo che si erano andati a cercare.
Soltanto prima della partenza alla Questura di Trapani riassaporai il sollievo di una doccia, feci mente locale di non essermi mai lavato e di non aver mai cambiato gli abiti. Quando sfilai gli anfibi si portarono con loro i calzettoni e la mia pelle fino ai polpacci. Un barbiere mi rase i capelli a zero per liberare la testa dai pidocchi e la cosparse con una pomata; mi venne da sorridere ricordando che lo stesso trattamento lo faceva mia nonna usando il petrolio, che penetrando nella pelle, procurava una terribile sofferenza come se mi avessero conficcato centinaia di aghi.
Mamma si sentì mortificata per l’incidente del caffè. Era orgogliosa di suo figlio: era stato intervistato dalla televisione (allora c’era soltanto la RAI), il Prefetto si era congratulato con lei e le sue amiche le avevano telefonato dopo la mia apparizione televisiva.
Archiviai il Belice e trascorsi i mesi successivi dividendomi tra la campagna elettorale in Lucania e le lotte studentesche a Roma; trovai anche il tempo per conseguire la maturità presentandomi da privatista. Per puro caso rincontrai il mio grande amore di Milano dopo una ventina d’anni.
Mimmo Guaragna