Con l’articolo 160 (lettera b) del “Patto di Stabilità” del 2016, è stato creato il finanziamento di un Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione, da istituire nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico.
Il Fondo raccoglie fino ad un importo massimo di 50 milioni di euro in ragione d’anno.
Nel Fondo di cui al comma 160, lettera b), confluiscono altresi’ le risorse iscritte nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico relative ai contributi in favore delle emittenti radiofoniche e televisive in ambito locale.
Tale Fondo avrebbe dovuto funzionare secondo un Regolamento in cui sarebbero stati stabiliti i criteri di riparto tra i soggetti beneficiari e le procedure di erogazione delle risorse del Fondo, da assegnare in favore delle emittenti radiofoniche e televisive locali per la realizzazione di obiettivi di pubblico interesse, quali la promozione del pluralismo dell’informazione, il sostegno dell’occupazione nel settore, il miglioramento dei livelli qualitativi dei contenuti forniti e l’incentivazione dell’uso di tecnologie innovative.
Questo Regolamento di ripartizione è stato definito con il D.P.R. n. 146/2017.
In realtà, il suddetto D.P.R. 146/2017 ha solo introdotto diversi elementi di criticità in danno del pluralismo dell’informazione, sotto l’aspetto – innanzitutto – della concorrenzalità, in quanto le modalità di accesso al Fondo, sono risultate favorire solo alcune emittenti: le più ricche.
A ciò si è giunti disponendo che solo le emittenti con personale giornalistico assunto potessero accedere al Fondo.
E questo ha introdotto un ulteriore elemento di criticità, per l’evidente sperequazione fra mansioni lavorative: è stato cioè detto, in parole povere, che un giornalista “vale” più di un tecnico, o di un fonico, o di uno speaker, o di altre figure fondamentali per l’attività di una radio o di una televisione.
Perchè -è evidente- senza fonici e senza tecnici, per esempio, non potrebbe andare in onda nemmeno il giornalista.
E’ come se in un ristorante si desse un valore solo al cuoco, e non al resto del personale: chi porterebbe i piatti in tavola ai clienti? Il cuoco? Chi dovrebbe apparecchiare, pulire, lavare, eccetera?
Due fortissimi elementi di criticità, dunque: l’aver favorito in questo modo la concorrenza dei più forti sui più deboli, e l’aver discriminato mansioni lavorative.
Un terzo elemento di criticità, poi, a ben vedere può essere facilmente individuato nella perdita -di fatto- della libertà di stampa, o anche solo di una porzione di essa; perchè se una emittente non può giovarsi di FONDI PUBBLICI come le altre, è evidente che avrà molta difficoltà a produrre informazione.
Fra l’altro, con l’istituzione della AgCom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) l’unico obbligo richiesto alle emittenti è l’iscrizione al ROC.
Infatti, il Registro degli operatori di comunicazione, comunemente definito con l’acronimo ROC, è uno specifico elenco istituito in Italia dalla legge 31 luglio 1997, n. 249, che ha inglobato il Registro nazionale della Stampa italiana e il Registro nazionale delle imprese radiotelevisive; è il ROC l’elenco al quale debbono obbligatoriamente iscriversi i soggetti destinatari di concessioni o autorizzazione in materia di comunicazione.
Dunque, dal 1997 le emittenti non hanno l’obbligo di avere una testata giornalistica; obbligo al quale invece soggiacciono se sono dei “quotidiani radiodiffusi”.
In tal caso, devono avere un giornalista iscritto all’Ordine come Direttore Responsabile, ma attenzione: la Legge sulla Stampa non vieta che il Direttore Responsabile sia anche l’Editore della emittente.
Con tali premesse, non è dato capire quale altra ratio vi sia nel regolamento di ripartizione del Fondo per l’Editoria (il D.P.R. n. 146/2017) se non quello di facilitare solo alcune aziende editrici.
E infatti, il Fondo viene lautamente assegnato in larghissima parte solo alle prime 100 tv locali in graduatoria.
Nei primi mesi del 2020 è stato istituito un FONDO DI EMERGENZA COVID-19 di 50 milioni di Euro. Questo Fondo andava diviso, con tutta evidenza, fra tutte le radio e tv locali, che avevano sofferto nel 2020 di un calo di pubblicità, a seguito della chiusura degli esercizi commerciali disposta dal Governo per prevenire l’ondata pandemica.
Invece, il Fondo di Emergenza è stato “agganciato” alla graduatoria del 2019, anno in cui non c’era ancora nessuna pandemia: uno stratagemma voluto proprio per escludere OLTRE QUATTROCENTO FRA RADIO E TV LOCALI.
“Si sono voluti favorire i soliti amici della parrocchietta?”, afferma in una nota ASSORADIO, l’Associazione delle RADIO unite che ottimizza e favorisce la comunicazione tra di esse.
“Giudichi chi legge. Sta di fatto, però, che sulla questione è intervenuta anche la AUTORITA’ GARANTE PER LA CONCORRENZA ED IL MERCATO, a Maggio 2020, e anch’essa ha individuato elementi di criticità nelle modalità di ripartizione”.
Ecco cosa ha detto l’AGCM: Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato
“Come andrà a finire? Che molti soldi andranno nelle tasche di pochissimi imprenditori. Una stazione lombarda (che si sente fra l’altro a Milano ma non in tutta la Regione) forse prenderà più di tre-quattro milioni di euro. Un’altra stazione pugliese, più o meno altrettanto.
Vi sembra un modo corretto di amministrare il denaro pubblico? Perchè quei soldi questo sono: denaro pubblico. Non sono (non ancora) soldi del Recovery Fund.
Crediamo di poter concludere dicendo che c’è molta miopia in tutto ciò. Come se le azioni di questo genere non fossero sotto gli occhi di tutti. Europa compresa.
E infatti, proprio l’Europa inizia a nutrire dubbi sull’efficienza italiana, sulle pianificazioni che dovrebbero rilanciare l’economia, e tutto il resto”.
L’Europa non si fida – Articolo del 19.11.2020
“Ci auguriamo – conclude ASSORADIO – che qualcuno faccia marcia indietro, e divida EQUAMENTE fra tutte le emittenti (che -lo ricordiamo- sono REGOLARMENTE CONCESSIONARIE DELLO STATO) quel denaro pubblico che proviene dalle tasche di tutti i cittadini”.