Sala 1, fila G, posto 12
Per qualche strana ragione ancora poco chiara i postumi dell’ubriachezza, da qualche tempo a questa parte, si chiamano con un termine inglese: hangover. Non si sa perché sia stato introdotto questo ennesimo inglesismo nella lingua italiana, così chiara e così ricca di vocaboli, ma sta di fatto che quella domenica mattina Rocco aveva tutti i sintomi. La sera prima era stato in un locale del paese, un po’ pub ed un po’ salumeria, di quelli che vanno di moda ora in cui non si capisce bene l’identità ma, dato che vanno tanto, tutti li fanno così. C’era un concerto quella sera, suonava un gruppo locale sentito chissà quante altre volte, ma di meglio in giro non c’era. Avete presente quei gruppi che suonano in tutte le feste di piazza, specialmente d’estate, seguiti da tante persone che, probabilmente, se ci fosse un biglietto all’ingresso, nessuno o quasi andrebbe ad ascoltare? Comunque, c’era questo concerto, un set acustico, perché il locale era così piccolo che a mala pena ci entravano tutti i clienti. Il sabato nei paesi della provincia italiana è un giorno diverso, ambientato nei soliti posti, ma con persone, le stessi di sempre, vestiti come nel giorno di festa. Le ragazze si fanno più belle, i ragazzi osano una camicia bianca e qualcuno con coraggio indossa una giacca, quelli più giovani possono fare un po’ più tardi del solito mentre i genitori restano svegli fino a tardi per aspettarli o, taluni, andarli a prendere fuori dai locali. Non cambia molto rispetto alla vita in città, solo che nei piccoli borghi questo fenomeno è più evidente, colorato, divertente. La birra che davano in quel locale aveva due varianti: grande o piccola; nessuno mai aveva bevuto un birra piccola in quel bar. Probabilmente nessuno aveva mai immaginato che potessero esistere bicchieri più piccoli per la birra. Poi c’erano alcolici base per cocktail, ma tanto tutti chiedevano sempre Spritz, Vodka Tonic, Gin Tonic e qualche volta, ma raramente, un Vodka Sour. Quando entrò nel bar trovò già gli amici di sempre, seduti al solito tavolo, a bere le solite cose. Rocco aveva sempre odiato questa ripetitività, la trovava labirintica e monotona, ma da quando aveva compiuto trentacinque anni, con due grandi amori falliti alle spalle e almeno quattro lavori persi per strada, trovava tutto ciò rassicurante. Si sedette con loro, iniziarono a brindare e a bere, a mangiare pizze, a bere, a postare foto su Instagram, poi iniziò il concerto. La musica scorreva, la birra scorreva, le ore passavano, i cocktail si alternavano, le foto giravano nelle chat, l’euforia era dilagante. Sorrisi, fotografie, pubblicazioni, incontri, segreti, piccole magie. Verso le 3 di notte, quando ormai era tutto spento e quasi tutti erano tornati a casa, andarono in un altro bar a bere il bicchiere della staffa. Quattro amari, sei sigarette e se ne andarono ognuno a casa propria. Rocco aveva bevuto talmente tanto che non riusciva nemmeno a spogliarsi per mettersi a letto. Si addormentò sul divano così com’era uscito di casa. Per fortuna viveva da solo, altrimenti sai la madre quante gliene avrebbe dette. Si alzò che era quasi mezzogiorno, come quando sei ragazzino e la domenica dormi fino a tarda mattina. Si muoveva a stento per casa, con la bocca impastata e i classici sintomi di una colossale sbronza. Se ne andò in bagno per farsi una doccia, ne uscì dopo un’ora con non poca difficoltà. Non ci sono molti rimedi all’hangover, devi solo aspettare che passi e lottare con ogni tipo di vertigine e malessere intestinale. Era da tanto che non prendeva un’ubriacatura del genere, una di quelle che quando hai venti anni passano dopo poche ore ma appena superi i trenta diventano un’altra cosa, una prova di resistenza fisica degna dei Marines ma con il fisico del sollevatore di polemiche. Il telefono si illuminava in continuazione, messaggi, notifiche di like, commenti, telefonate, messaggi vocali, email, ma non era in grado di mantenere la concentrazione per più di trenta secondi. Si mise a letto, finalmente, dopo aver bevuto un bicchiere di coca cola con tanto limone dentro, un vecchio metodo provato una volta sola ma che non fece molto effetto. Era quasi ora di pranzo ma con lo stomaco così rivoltato non era in grado di buttare giù nemmeno un cracker. Beveva acqua, tanta, sperando di depurarsi dalla notte, ma la testa continuava a girare. Dopo quasi un’ora di tentativi andati a vuoto riprese sonno, ma si svegliò dopo pochissimo tempo per andare in bagno. Non trovava pace, non riusciva a riprendersi nonostante tutta quell’acqua. Distrutto decise di uscire fuori e fare due passi, pensando che l’aria fresca lo avrebbe aiutato a riprendersi; la domenica pomeriggio è un luogo geografico deserto in cui girano poche anime e non si sente alcun rumore, il momento ideale per girare a piedi senza dover salutare nessuno e, peggio, doverci parlare. Tra i tanti messaggi ancora da rispondere c’era anche quello di Elisabetta con la quale aveva un appuntamento per la sera, al cinema.
«Come stai? Hai deciso che film vediamo stasera? “
«Ciao! Io tutto bene e tu?”
«Si, ho mangiato tantissimo e mi sto rilassando sul letto leggendo un libro che mi hanno regalato per il compleanno. “
«Che bello! Cosa stai leggendo?”
«E’ un romanzo, non penso ti piacerebbe.”
«E perché?”
«Perché parla di ex fidanzati e ragazze trentenni in carriera.”
«E quindi?”
«E quindi è molto duro con voi uomini, una fotografia spietata.”
«Ho capito, il classico libro scritto per vendere copie su copie.”
«Lo vedi? Comunque, che film vediamo? Hai scelto?”
«Si”
«E cosa?”
«Ehm….”
Silenzio.
Un lungo silenzio. Un rumorosissimo silenzio. Chiaramente Rocco non aveva visto nulla. Anzi, non si ricordava nemmeno dell’appuntamento, voleva solo stare meglio e farsi passare al più presto il mal di testa. Andò subito sul sito del cinema, diede una rapida lettura alle sinossi dei tre film proposti nelle quattro sale, e le rispose girandole direttamente il link del film che gli sembrava più vicino ai suoi interessi. La fortuna lo aiutò perché Elisabetta gli rispose subito e positivamente. Il meno era fatto, adesso doveva riprendersi e anche in fretta, ma allo stato post bevuta si aggiungeva anche quella tipica depressione domenicale che il mal di testa gli amplificava. Arriva sempre più o meno alle 18 quel pensiero che ti mette tristezza, feroce. Il pensiero dell’interrogazione di matematica del giorno dopo, con tutto il carico di ansia e agitazione che porta con sé. Arriva e tu non puoi farci nulla, devi subirlo e basta. La resistenza è futile. Tu puoi reagire, guardare i gol in Tv, vedere un documentario sulle neuroscienze su Netflix, ma tanto sai bene che quando arriverà quel magone allo stomaco tutto ti sembrerà più triste, grigio, inutile, amaro. Con le mani provi a trattenere quel che resta della domenica mattina, della sua lentezza, della pigrizia, del sole luminoso che risplende in certe giornate invernali a tradimento, ma niente e nessuno ti toglierà dalla mente l’immagine di te alla lavagna con la prof di matematica che ti interroga su tutto quello che non sai. Perché va sempre così, non è vero? Le interrogazioni del lunedì, altra vera metafora della vita. Bevve un altro caffè, si fece un’altra doccia, provò a darsi una sistemata e a coprire le occhiaie con una crema che gli aveva regalato la mamma e che, diceva, faceva miracoli. Stava un po’ meglio ma la stanchezza iniziava a farsi sentire. Si vestì con attenzione, scegliendo con cura l’abbinamento dei colori, voleva fare bella figura con Elisabetta anche perché era la loro prima uscita da soli. L’aveva conosciuta un mese prima in fila in banca, lei era lì per certi affari e lui per conto dell’azienda di cui era consulente. Si piacquero subito, probabilmente dal primo sguardo, ma nessuno dei due quel giorno ebbe il coraggio di presentarsi. Si sorrisero molto ma niente altro. Qualche ora dopo lui la aggiunse su Facebook, lei gli rispose quasi subito e di lì iniziarono a scriversi raccontandosi di tutto e commentando su ogni cosa. Tanto era tutto virtuale, era tutto in chat, e in quello spazio, si sa, è tutto possibile, anche sembrare un grande poeta, un leader politico, un innovatore à la Elon Musk o una fotomodella con milioni di followers come Emily Ratajkowsky. Il problema è che poi arriva la realtà e lì c’è poco da fare: o sei davvero così come racconti, oppure sei molto bravo a fingere. Diversamente rischi di finire nel girone degli sfigati, senza alcuna redenzione, senza appello, senza poter uscire a riveder le stelle. Perché le illusioni sono facili, rapide, ma le delusioni sono imperdonabili. In macchina, finestrino abbassato per far cambiare l’aria e per prendere il freddo in faccia, musica giusta, profumo di pulito. Lei scese le scale del portone con un’eleganza sublime, sembrava Elizabeth McGovern quando entra nell’auto di Robert De Niro che la stava aspettando da una vita. Risate, sorrisi, primi segni di complicità, l’arrivo al cinema. Rocco pagò i biglietti, solitamente si fa così alla prima uscita, lei prese da bere e una busta di pop corn, poi salirono su per la scala che portava nella sala più grande di quel piccolo cinema di periferia trasformato in un multisala dalla modernità e dalle leggi del mercato. Seduti su quelle poltroncine, uno accanto all’altra, non sembravano affatto alla loro prima uscita. Si sfioravano le mani, si cercavano con le braccia, sentivano che c’era un’energia bella e luminosa tra di loro. Poi il buio, la pubblicità che durò almeno dieci minuti, e finalmente l’inizio del film. Non smisero mai di cercarsi, di sfiorarsi, senza parlare mai per non disturbare gli altri. Sul grande schermo scorrevano le immagini della finzione, nella testa di Elisabetta chissà invece quali immagini stavano prendendo forma: lei che sognava il grande amore e che sperava ancora di incontrare l’uomo giusto per la sua vita, aveva vissuto intensamente tutte le sue storie, due le più importanti, e non aveva ancora smesso di credere nell’amore dei poeti e dei romanzieri. Eppure di delusioni ne aveva avute e ne portava ancora addosso le cicatrici. Elisabetta, l’ottimismo della volontà spiegato bene. Verso metà del film Rocco smise di cercarle la mano, di bere acqua, di mangiare popcorn. Elisabetta pensò che forse era un modo per mantenere una distanza giusta, per far crescere la tensione e farla esplodere nel finale, magari fuori dal cinema, prima della sigaretta o prima di entrare in macchina, con un lungo bacio appassionato. In quell’ora prima dei titoli di coda Rocco ed Elisabetta non si dissero nulla, non si guardarono, non si toccarono le mani. Alla fine del film, sui titoli di coda mentre le luci della sala iniziavano ad accendersi lentamente, Elisabetta si girò alla sua sinistra per cercare lo sguardo di Rocco ed iniziare una conversazione. Rocco era lì, non era andato via, ma stava dormendo come un sasso. Imbarazzata Elisabetta non sapeva come fare. Iniziò a chiamarlo sottovoce, poi un po’ più forte ed infine lo scosse toccandogli la spalla sinistra.
«Rocco! Oh! Rocco! Oddio che succede? Aiuto! ». Iniziò a gridare sbracciandosi, mentre la sala si svuotava ed entravano i ragazzi del Cinema per rimettere tutto a posto e pulire le poltrone dai residui delle patatina. Elisabetta si alzò, poi si chinò verso di lui per sentire il respiro: c’era, il cuore batteva, ma non si riprendeva. Forse un mancamento? Forse un calo di pressione? Gli buttò in faccia l’acqua rimasta nella bottiglietta ma nulla da fare. Uno dei ragazzi si avvicinò di corsa per capire cosa stesse succedendo, così iniziarono in due a scuoterlo e a chiamarlo. I secondi passavano, l’ansia cresceva, la paura le aveva bloccato le gambe ed il cuore le batteva a mille. Rocco non rinveniva, non dava segni, non sembrava volesse darne. Prese il telefono per chiamare aiuto, un medico e un’ambulanza. Lì il telefono non prendeva, sarebbe dovuto uscire per chiamare, ma non voleva lasciare Rocco da solo. Era spaventata, le si leggeva il terrore negli occhi, le mani le tremavano. Provò a richiamarlo, questa volta gridando «Rocco! Rocco ti prego! Rocco! » . In preda al panico gli diede uno schiaffo fortissimo e ad un tratto Rocco si svegliò saltando dalla poltrona.
«Che succede? Chi sei? »
«Come? Cosa? »
«Scusa Eli ma io…»
«Rocco ma che cazzo sta succedendo? »
«Mi hai fatti male, oh! »
«Ti credevo morto! Come stai? Che succede? »
«Ma no niente. Mi ero solo rilassato un attimo sul finale. Sai il cinema…»
«Il cinema cosa? Mi stai dicendo che non ti sei sentito male? Io pensavo fossi svenuto e invece ti sei addormentato? Santa pace, ma vedi tu se è normale! »
«No! No! Non è come credi…»
«Non voglio sapere nulla! »
«Lasciami spiegare, è solo che…»
«E’ solo che sei un cretino! »
«Ma Eli, dai! Dove vai adesso? »
«Me ne vado. Non ci voglio stare con uno come te! »
Se ne andò, senza nessun finale romantico e senza nemmeno una sigaretta. Se ne andò e scomparve nella notte come un sogno finito troppo presto. Rocco provò a cercarla il giorno dopo e per tutta la settimana, ma Elisabetta si negava ogni volta e non dava alcun segno di vita. La rivide dopo un mese nel negozio di mobili antichi di un centro commerciale. Si salutarono, parlarono un po’, Rocco si scusò nuovamente ed Elisabetta gli presentò il suo nuovo fidanzato. Anche quel giorno era domenica, una domenica triste e con il freddo che tagliava le mani. Si salutarono, ognuno andò per la sua strada. Dopo qualche giorno Rocco andò a vedere le sue foto su Instagram ma scoprì che lo aveva rimosso dai contatti. Lo stesso anche su Facebook. E’ da quel giorno che Rocco non beve più, esce poco, ogni sera va a dormire alle 10 di sera e non salta più nemmeno una lezione di yoga.
Pensava fosse amore, invece non era nemmeno un calesse.