Il pranzo per farli conoscere
Se c’è una ragione per restare a casa la domenica, è quella straordinaria, splendida, genuina, maledetta pigrizia che assale tutti dal momento in cui poggiamo il primo piede a terra, al risveglio, e che ci fa compagnia fino a quando non torneremo a letto. La domenica è la giornata ideale per farsi travolgere dalla noia, dalla lentezza, dalla calma, dalla malinconia, anche se la propria squadra del cuore ha vinto con quattro gol di scarto ed è prima in classifica. La domenica è il giorno ideale per passeggiare lungo la malinconia, ripercorrere il viale alberato della memoria e perdersi nei vicoli stretti dei ricordi. La domenica è il giorno ideale per fare un sacco di cose facili, con pochi sforzi e senza pensare al risultato. La domenica è la terra fertile dei pigri, in cui vallate sterminate di divani si lasciano invadere da corpi stanchi volenterosi a restare lì fermi per ore ed ore. Corrado Govoni racconta benissimo quali sono le cose che fanno la domenica.
“L’odore caldo del pane che si cuoce dentro il forno.
Il canto del gallo nel pollaio.
Il gorgheggio dei canarini alle finestre.
L’urto dei secchi contro il pozzo e il cigolio della puleggia.
La biancheria distesa nel prato.
Il sole sulle soglie.
La tovaglia nuova nella tavola.
Gli specchi nelle camere.
I fiori nei bicchieri.
Il girovago che fa piangere la sua armonica.
Il grido dello spazzacamino.
L’elemosina.
La neve.
Il canale gelato.
Il suono delle campane.
Le donne vestite di nero.
Le comunicanti.
Il suono bianco e nero del pianoforte.”
Questa è solo una parte della sua poesia “Le cose che fanno la domenica”, l’elenco è ancora più lungo. A queste immagini le nostre abitudini potrebbero aggiungerne tante altre, non tutte per forza belle e non sempre così festanti. Provate adesso ad immaginare il risveglio di Mario che quella domenica aveva un invito a pranzo a casa di Alice, la sua fidanzata. Non era un invito qualunque, ma era l’invito, quello che quando arriva mette sempre ansia. L’invito per conoscere i suoi genitori: un evento destinato a cambiare molte cose, abitudini e prospettive future comprese. La vita, in alcuni casi.
Di domenica è ancora più destabilizzante, perché rende difficile, come un esame a cui non hai dedicato molto tempo e voglia ma che devi fare altrimenti i tuoi non ti passano i soldi per i prossimi tre mesi, una normale giornata di godibilissimo e totale svaccamento. Era da settimane che Alice gli aveva annunciato questo pranzo, raccontandogli tutti gli aneddoti sul giorno in cui i suoi conobbero il suo ex, e di quanto fosse importante per lei questo giorno. Lo aveva ripetuto così tante volte che ormai conosceva a memoria anche la fine del racconto: “Quel maledetto bastardo!”.
L’ansia, dicevamo. Mario si svegliò verso le nove del mattino, con il solito ed immancabile odore di ragù che proveniva dalla cucina. “Oggi devo andare a casa di Alice, che stress. Ma non potevo dirle di no? Mi sarei goduto il sugo di mamma e la pasta fatta in casa di nonna”. Uscì di casa per comprare del vino e i dolci in pasticceria. Mentre era in fila per scegliere i dolci, si ricordò d’un tratto che Alice gli aveva raccontato delle allergie della madre e della crisi che ebbe, poverina, dopo aver mangiato un tortino di mandorle e crema chantilly. Evitò accuratamente di prendere dolci con frutta secca, un‘operazione abbastanza complessa vista la fantasia che ormai regna nelle pasticcerie che non fanno più cose semplici, anche perché presentarsi il primo giorno, a casa dei futuri suoceri, con una più che certa crisi allergica impacchettata e servita sul vassoio non era affatto il modo migliore per farsi voler bene. Finiti gli acquisti se ne tornò a casa per prepararsi psicologicamente all’appuntamento. Aveva letto libri, visto film, serie tv e mille post sul primo incontro con i suoceri, ma nessuno gli aveva spiegato, ad esempio, come vestirsi. E si, perché anche l’abbigliamento – o l’outfit, se preferite- ha la sua importanza. Non ci si può presentare in tuta, pur essendo domenica, il giorno in cui la tuta è d’obbligo come lo smoking ad una cena in Ambasciata. La giacca? Si ma non troppo elegante. La cravatta? Se la metti la prima volta poi dovrai metterla sempre. Il jeans? No, altrimenti ti scambieranno per un eterno adolescente. Insomma è un bel casino, un rebus senza facile soluzione. Tormenti.
Alla fine trovò un giusto compromesso di colori e personalità, calibrando bene l’abbinamento della giacca con i pantaloni. Poi passò in rassegna una serie di frasi fatte ma sempre utili ed opportune. Perché l’altra sfida è tutta nei dialoghi che dovrai sostenere tra una portata e l’altra. Per uno come lui, che di lavoro portava i conti degli altri, le parole non erano poi così importanti, però sapeva bene che citare quel libro o quel film poteva sempre tornargli utile. Allo specchio, come un Travis Bickle ma senza cattiveria, provava sorrisi e pause, respiri e l’intonazione della voce. Prove e ansia. Era quasi ora di andare, salutò la madre, che era ancora in cucina, le diede un abbraccio e si avviò verso casa di Alice. Venti minuti dopo era già sotto il suo portone. Per un anno intero si era fermato con la macchina sotto quel portone senza mai poterlo valicare. Era come una linea di confine tra la sua vita e quella di lei, una delimitazione tra due zone di confort che si erano mescolate per qualche ora ma che facevano presto ritorno ognuno a casa sua. Superare il confine, che inutile stress, la domenica. Restò lì davanti per cinque lunghi minuti, aveva bisogno di solitudine e aria prima di citofonare e dare il via alle danze.
«Sali, Mario. Terzo piano». Era il padre di Alice, un uomo sulla sessantina, professore di Storia Medioevale e grande appassionato di tennis, lo sport che Mario detestava più della Formula 1 e del ciclismo. Nel breve tragitto dell’ascensore ripensò all’odore del sugo della mamma, alla tuta, al divano, agli sbadigli del dopo pranzo, al divano del salone di casa della nonna, al riposino pomeridiano, alle partite allo stadio, a quelle in tv, ai libri di Francesco Piccolo letti senza fretta, a quando era piccolo e faceva il chierichetto nella chiesa del paese del padre, ai dodici consigli delle persone di successo su come superare la noia della domenica – ma perché? -, ancora al divano, ancora al profumo della cucina di casa, ai sigari aromatizzati del padre, alla tristezza che ti assale verso le sei della sera. Le porte dell’ascensore si aprirono, Alice era lì con un sorriso bellissimo e le braccia aperte per accoglierlo. Si salutarono con bacio veloce sulle labbra, poi entrarono in casa. I genitori di Alice lo accolsero con un sorriso, una stretta di mano ed un aperitivo, analcolico, di benvenuto. La sua ansia stava raggiungendo livelli altissimi e non era ancora arrivato il momento in cui sarebbero stati vicini, seduti, alla stessa altezza, e con una forchetta in mano. Perché da come uno mangia si capisce molto, questo lo sapeva bene Mario, lo sapeva bene Alice, lo sapevano benissimo quei due perfetti sconosciuti che erano destinati a diventare i nonni dei suoi figli. Che beffa assurda: uno non può scegliersi i genitori ma può scegliere i suoceri, solo che i primi li ami dal primo minuto e lo farai per sempre, gli altri sappiamo bene com’è. Mario pesava tutto, le attese e le parole, i bocconi e i bicchieri di acqua. Aveva studiato bene questa parte, non poteva sbagliare. Alice era brava a rendere tutti meno complicato, nonostante le troppe domande della madre ed i silenzi del padre, soprattutto quando Mario parlava, ragionava, o dava un parere sulle scelte della figlia. Alice, figlia unica, insicura cronica e docente di Italiano in una scuola media di provincia da quasi dieci anni., entrata di ruolo da poco più di sei mesi, dirigeva l’orchestra delle conversazioni, come Andrea Pirlo con quel passaggio a Grosso che è sempre bello rivedere. La madre parlava tanto, invece, e lui ne era felice perché gli permetteva di pensare bene a cosa rispondere senza essere istintivo e spontaneo. Perché non sempre la spontaneità paga, anzi.
«Mi ha detto mia figlia che ti occupi di allestimenti per locali, mi sembra un bel lavoro. Io ho sempre avuto il sogno di aprire un ristorante tutto mio, ma questo qui – rivolgendosi al marito con un sorriso – non ha mai creduto nelle mie capacità culinarie. Ma di preciso, cosa fai tu? Perché non sei un architetto, mi pare. Scusa la domanda, ma sai la mia curiosità è forte, anche perché non ho mai conosciuto una persona che facesse il tuo stesso mestiere». Mario raccontò la sua giornata tipo, la bellezza di veder crescere i progetti, il passaggio dall’idea alla sua realizzazione che rende cose concrete i sogni. Le parlò anche delle difficoltà del mercato, della crisi che l’azienda per cui ancora lavora aveva dovuto affrontare e dell’incertezza dei tempi tipiche di un settore molto sensibile ai consumi dei cittadini. Su questi argomenti era preparatissimo, magari non ci metteva tutta la poesia necessaria per affascinare il suo interlocutore, ma sapeva tutto e ci teneva a dimostrarlo. Alla fine la madre di Alice gli sembrò convinta, così come può esserlo un’insegnante di scuola elementare, moglie di un professore universitario e madre di una docente di scuola superiore, per cui il 27 del mese è una certezza che non da pensieri e non una scommessa che provoca solo tormenti.
Primo, secondo, frutta, dolci, caffè in salotto. Bere il caffè in salotto, la domenica, vuol dire potersi spalmare sul divano, o sulla poltrona, e lasciarsi andare fino al sonno. Non per lui, non in quel momento, non in quella casa. Su invito del padre di Alice si sedettero sul divano, quello di fronte la televisione. Mentre girava tutti i canali possibili ed immaginabili – ancora oggi Mario non capisce perché suo suocero se deve andare chessò a canale 46 parte dal primo e se li guarda tutti in sequenza, quando potrebbe digitare direttamente quel maledetto numero senza perdere troppo tempo – ad un certo punto si ferma sulla diretta di un incontro di Tennis. Mettete in fila gli elementi: domenica, post pranzo, divano, tennis. Il risultato non può che essere un abbiocco dopo dieci minuti con tanto di russamento e copertina annessa. E invece: no. Lui non poteva. Mario non poteva cedere alla noia dolcissima della domenica. Restò a guardare la partita per almeno un’ora, fino a quando Alice non gli propose si andare a fare un giro al fiume. Una salvezza, una Manna dal cielo, un rigore al novantesimo sullo 0-0. Con uno scatto felino Mario si alzò dal divano; mentre il padre lo invitava a restare ancora un po’ per finire di vedere la partita Alice, che aveva capito tutto e non lo dava a vedere, gli rispose che aveva voglia di fare due passi e che tanto Mario, di lì a poco, sarebbe dovuto andare via. Si salutarono con una stretta di mano, la madre di Alice lo ringraziò per aver accettato l’invito e gli diede un abbraccio, come a sancire l’ingresso in famiglia. Mario, imbarazzato, ringraziò a sua volta e poi uscirono dalla porta. In ascensore non si dissero una parola. Nemmeno in macchina, tanta era ancora la tensione nervosa. Solo dopo il primo giro del fiume iniziarono a parlare, ma non del pranzo.
«E’ andata bene, no? »
«Si, sei stato bravo. »
«Menomale! »
«Secondo me sei piaciuto a mio padre. »
«Peccato…»
«Come? Peccato? »
«Avevo puntato tutto su tua madre…»
«Bella, vero? »
«Ma quindi…adesso…noi…»
«Cosa? »
«No, dico, noi adesso siamo…»
«Dici che siamo una coppia a tutti gli effetti? »
«Per me lo eravamo anche prima, però adesso…»
«Già, adesso. »
«Mi sembra ieri che ci siamo incontrati sul quel treno. »
«Che viaggio bellissimo, che meravigliosa sorpresa sei stato. »
«Veramente per metà del viaggio hai dormito. »
«Che vuol dire? Conta il tempo passato insieme»
«Effettivamente quell’ora prima dell’arrivo…»
«Era domenica, ricordi? »
«Proprio come oggi, ma diversa. »
«Si, oggi è una domenica a suo modo speciale. »
«Non ho mai dato molta importanza a queste cose, sai»
«A cosa? »
«Il pranzo della domenica, l’invito a casa della mia ragazza, il rituale dell’incontro. »
«Chissà a quante avrai detto questa cosa! »
«Una sola volta mi è capitato di andare a pranzo a casa dei genitori di una mia ex. A metà me ne volevo già scappare. Non per colpa loro, ma ero proprio a non reggere molto una situazione così ingessata e poco rilassata. »
«Per fortuna le cose cambiano, no? »
«Si, per fortuna. »
«Adesso ti toccherà invitarmi a casa dei tuoi, lo sai? »
«Si, lo so. Ma con calma. Anche perché loro vivono al paese e non sono ancora pronti per tutte queste novità. »
«Non vedo l’ora. »
«Anche io, ma vorrei fare le cose con i giusti tempi. Li conosco bene. »
«Secondo me verrà a piovere, forse è meglio tornare a casa. »
«Si. Vieni da me’? »
«Mi piacerebbe, ma ho promesso a mamma che saremmo andate al cinema insieme»
«Capisco. Va bene, allora ti accompagno e me ne vado a casa»
«Tanto ti chiamo appena esco e magari ti raggiungo e ceniamo da te»
«Io stasera devo vedere almeno tre puntate di House of Cards»
«E le partite? »
«Amore, la Juve ha giocato ieri. Non segui molto. Non va bene così»
«Ma io ho te per tutto questo, no? »
Si diedero un lungo bacio, si guardarono negli occhi stringendosi con forza: una dolcissima forza. Nessuno dei due voleva lasciare l’altro, nessuno aveva il coraggio di interrompere quell’incantesimo d’amore che era esploso con tutta la sua bellezza e l’incanto che regala agli occhi, e ai cuori, degli innamorati. Mario tornò a casa, si mise sul comodo divano, accese la tv ed iniziò a guardare la prima puntata della sesta stagione di House of Cards. Quando finì si rese conto che non ci aveva capito nulla e che non aveva seguito nemmeno un minuto intero. Il pensiero e l’immaginazione erano altrove, ad Alice, alle sue umane imperfezioni, alla voglia di vivere con lei per tutto il resto della sua vita. Sentiva dentro di sé che da quella domenica era iniziata una nuova vita, la sua. Sorrideva e si sentiva leggero, forte di un sentimento che avrebbe vissuto momenti di debolezza ma che aveva le radici ben piantate a terra. Prese in mano un libro che aveva lasciato sul tavolino basso alla sua destra. Si mise a leggere a bassa voce. Poi, andando verso la finestra, verso la fine della poesia, la alzò di un tono.
«Anche questo è delizioso, che niente sia stato detto tra me e lei; ma ci siamo talmente intesi in quella invisibile conversazione fatta di sguardi e di toni di voce che oggi, in maniera più chiara che mai, ella mi ha detto che mi ama». (Lev Tolstoj, “Anna Karenina”)
La fine della lettura coincise con l’arrivo di Alice, come in uno di quei telefilm americani in cui l’amore vince sempre su tutto e poi vissero felici e contenti. Happy ending, lo chiamano quelli bravi, che scrivono sui giornali solo di domenica. Per loro, l’amore, era una prova quotidiana di esistenza e di resistenza ai mali del mondo. Una prova che aveva bisogno di imperfezioni e poesia, prosa e salite, prati verdi e la pazienza dei coltivatori. L’amore è come il tempo nelle mani dei contadini, è un inganno che da speranza, una necessità impellente che vive di desideri, che diventa forte solo quando si è provata con la tempesta. Una vita nuova che inizia di domenica ha un sapore particolare, di festa e di intima bellezza, sa di buono e odora di pulito come i panni stesi ad asciucare. Alice era già entrata in casa quando Mario spense il sigaro ed aprì la finestra lasciando uscire il fumo nel buio della notte. Lì fuori c’era un mondo freddo, all’opposto del loro sentimento, in preda alla rabbia e consumato dal livore. Ma per quella notte, almeno per quel canto di luna, tutto quello che occorreva era con loro in quella piccola casa del centro, riscaldata dal loro fuoco, protetta dalle solide mura del loro irrefrenabile desiderio di bellezza, di vita futura, di un’illusione che fosse per sempre.