Il giorno prima
Qualche giorno prima di Natale dello scorso anno Andrea perse il lavoro. Da tre anni lavorava in una piccola biblioteca privata, con un contratto interinale rinnovato a più riprese. Si occupava di catalogare libri, mettere in ordine gli archivi, dare un senso ad un patrimonio librario di un piccolo centro studi che si occupava di economia e storia del territorio. Era il 15 dicembre, alle ore 11, quando il capo del personale convocò tutti i dipendenti per comunicargli che a partire da qual giorno, in cui scadeva l’ennesimo contratto a tempo, non ci sarebbero stati più rinnovi. Un colpo al cuore, una pallottola sparata ad altezza del petto che lo riportò a vivere l’incubo della disoccupazione. Nonostante non fosse il solo lì a perdere il lavoro, non riusciva a trovare consolazione nel dolore condiviso con i suoi colleghi. Ognuno ha dentro di sé un carico emotivo differente e spera, legittimamente, di poter accedere ad una serenità necessaria che solo la stabilità lavorativa è in grado di dare. Rientrò nel suo ufficio, per completare le ore rimaste e per non mostrarsi debole e ferito agli occhi degli altri. Era un venerdì, uno di quei giorni i cui fai programmi per il fine settimana o inizia a fare il giro per comprare i regali da far trovare sotto l’albero. Non aveva figli, non era fidanzato o sposato, viveva solo per lavorare ed il lavoro era la sua unica cura alla durezza sferzante della vita. Ma nonostante questa sua condizione, era stanco di dover ripartire sempre da capo, di doversi mettere ancora una volta a rincorrere occasioni fugaci e progetti che durano meno di un aperitivo al bar. Perché quando non hai più vent’anni, ma nemmeno quaranta, vorresti piantare definitivamente i paletti della tua tenda in un terreno più sicuro e meno precario. Perché quando la maggior parte dei tuoi amici ha figli oppure progetta di averne, vuol dire che non hai più altro tempo da perdere in tentativi e che è arrivato il momento di crescere, essere adulti, prendere la vita di petto ed affrontarla.
Il lunedì dopo andò di mattina presto al sindacato vicino casa a compilare tutta la documentazione necessaria per potere accedere al sussidio di disoccupazione. Finito lì, non gli restava altro che mettersi in fila al Centro per l’impiego ed aspettare il suo turno per diventare ufficialmente, e nuovamente, un disoccupato. Fu di pomeriggio, in bagno per lavarsi i denti dopo il caffè, che guardandosi allo specchio scoppiò in un lungo pianto senza consolazione. Solitamente a quell’ora si preparava per ritornare in ufficio, adesso, invece, non aveva niente da fare e non sapeva come colmare quel vuoto. La prima settimana fu dura, ma poi arrivò il Natale ed il peso della disperazione si fece più leggero. La tristezza tornò a fargli visita la notte dell’epifania e restò ferma nel suo cuore per molti altro tempo. La sua amarezza si amplificava ogni volta che incontrava qualche amico e sentiva i suoi discorsi sul lavoro, i colleghi, i viaggi, i progetti, le firme su contratti a tempo indeterminato. Quei racconti erano seghe taglienti che buttavano giù alberi e le parole erano sassi lanciati involontariamente contro la sua già fragile autostima mescolata alla paura di non essere più quello di prima. Per non pensare troppo, per non sentire il suono assordante di quel vuoto, si era dedicato al volontariato dando una mano ad una piccola associazione impegnata nel recupero di antichi volumi donati da biblioteche private. Era un modo per non perdere l’allenamento, confidando un giorno di poter ritornare a fare il lavoro che tanto amava. In quei mesi la sua solitudine si era sommata, i giorni in cui preferiva starsene da solo per non dover giustificare agli altri la sua tristezza, ormai erano superiori alle uscite di gruppo o alle cene da amici. Perso dietro le nuvole del suo grigiore, non era riuscito nemmeno ad invitare Sara a bere un caffè. Perché sapeva bene che, alla sua età, non contavano più i racconto sui sogni e le ribellioni adolescenziali, ma la concretezza del quotidiano e la narrazione della ruvida pratica del lavoro, che permetteva di coltivare ancora qualche sogno e buone speranze. Si confidava solo con il suo amico Paolo ma solo perché vivevano entrambi la stessa condizione. Solo lui era in grandi di capirlo, solo lui poteva avere il peso reale della condizione che stava vivendo. Ogni tanto si concedeva qualche sfogo su Facebook, il posto perfetto dove puoi trovare facile ed immediata consolazione a costo zero. Una domenica mattina, dopo sei lunghi mesi da quel giorno di dicembre, preso da un momento di scoramento totale misto ad ansia, scrisse un lungo post.
“Ho perso. Ho perso molte cose in questo tempo che non tornerà più. Ho perso il lavoro. Ho perso cose che non sono solo cose. Non le trovo più, chissà dove sono andate a vivere. Ho perso due mazzi di chiavi, tre agendine, treni per tornare a casa. Ho perso tempo. Ho perso tempo ad aspettare, a rincorrere errori di altri, ad ascoltare inutili conversazioni, a scrivere parole che nessuno mai leggerà. Ho perso me. Ho perso battiti buoni di cuore, convinto com’ero che quello sarebbe stato davvero amore. Ho perso canzoni e bit, note e parole, suoni e battiti. Ho perso le parole. No, non come quel cantante lì. Le ho perse ogni volta che la meraviglia e lo stupore si sono presentate dinanzi ai miei occhi. La bellezza dei luoghi, lo stupore delle storie, l’incanto dei racconti. Ho perso ogni volta che ho vinto. Ho perso ogni volta che ho scelto. Ho perso tutte le volte che ho rimandato a chissà quando. Ho perso occasioni per troppa pigrizia. Ho perso sapori. Ho perso per paura di cambiare. Ho perso scegliendo l’abitudine, che poi è diventata monotonia. Ho perso la tranquillità delle certezze, ma non mi sono scoraggiato. Ho perso i giorni dei miei genitori, le loro stanchezze, i primi segni del tempo che si sta sedendo sulle loro gambe. Ho perso quando il cinismo ha prevalso sulla comprensione. Ho perso quando non ho dato ascolto a chi ne aveva bisogno. Ho perso quando non ho speso parole gentili, quando ce n’era bisogno. Ho perso quando ho pensato che fossi solo al mondo. Ho perso quando ho creduto che fosse solo il mio il mondo. Ho perso quando ho permesso agli altri di attraversarmi l’anima. Ho perso quando ho concesso spazio interiore a parole violente. Ho perso ogni volta in cui non ho detto grazie. Ho perso la verità quando ho inseguito le opinioni. Ho perso perché non ho mai accettato la sconfitta. Ho perso l’amore perché ho ceduto spazio al rancore. Ho perso silenzi, luce, arcobaleni, fiori, primavere, sole d’estate, tramonti incendiati, albe dolci, sapori decisi, luoghi lontani, partenze ed arrivi. Adesso che c’è molto spazio, dovrò provare a riempire il mio tempo con più vita e meno rumore. Scegliere di essere, senza timori. Avere la giusta misura nell’aggiungere e nel sottrarre. Dare un valore alle divisioni, saper moltiplicare. Ciò che ho perso è solo un ricordo, quello che resta è tutto ancora da vivere. O così spero che sia”.
Tante furono le reazioni, molti i commenti ed i messaggi: chi gli lasciava un cuore, chi lo invitava a non mollare, chi gli diceva di non sentirsi solo perché erano in tanti a vivere quella condizione, e chi gli suggeriva di fare questo o quel corso di formazione perché non si sa mai. Una solidarietà di plastica, consolatoria per qualche istante, un’esperienza dopaminica fine a sé stessa e per nulla necessaria. Qualche ora dopo quel post gli arrivò una telefonata. Era Bruno, un vecchio amico del padre, che aveva letto quel post e lo invitava a raggiungerlo a casa sua per fare due chiacchiere. Lui ci andò, parlarono a lungo di suo padre morto qualche anno fa, dei ricordi di un ragazzo che non ha mai più rivisto il padre, del bisogno di volersi sentire uomo maturo e pronto per la vita vera. Era quasi ora di cena, fuori il buio era illuminato dalle luci elettriche che rimbalzavano sui vetri delle case popolari, quando Bruno, guardandolo negli occhi, gli disse: «Andrea, io volevo molto bene a tuo padre, per me era come un fratello e lo sai. Per questo, anche se non è proprio il tuo mondo, voglio dirti che se lo vorrai, puoi venire a lavorare in azienda da me. Lo sai, io non mi occupo di libri e vecchie pergamene, ma di vino e distribuzione alimentare. Però uno come te mi farebbe davvero comodo, perché hai l’età, la fame e la forza giuste per compiere un piccolo salto in avanti. Pensaci, non avere fretta nel darmi una risposta. Risentiamoci quando vuoi. I miei figli ed io saremmo ben felici di averti in squadra. Possiamo iniziare quando vuoi. ». Andrea non gli disse nulla, si limitò solo ad abbracciarlo e a ringraziarlo. Tornò a casa, si fece una doccia calda, bevve un bicchiere di rosso, mangiò della pizza riscaldata del giorno prima e se ne andò sul balcone a fumare una sigaretta. Che poi divennero tre. La vita gli stava proponendo un bivio ed ora toccava a lui prendere la migliore decisione. Era stanco dei sogni che a certe ore del giorno e della notte sembrano come smarriti, sapeva che la vita, a volte, è più forte della vita e che la pioggia passerà, e tornerà il sole. Forse era giunto il suo momento, la sua occasione di rinascita, la tanto attesa nuova stagione. Fermo non poteva più stare, i soldi della disoccupazione iniziavano a non bastare più e, peggio, non voleva atrofizzarsi in quel limbo fatto di attese ed illusioni, molto scivoloso. Erano quasi le dieci quando prese il telefono e chiamò Bruno. Diede un tiro alla sigaretta, tirò fuori tutto il fumo e gli disse: «Bruno, perdonami l’ora, ma volevo dirti che ci ho pensato molto alla tua proposta e la mia risposta è: si. Grazie ancora per questa opportunità che mi dai, grazie della tua amicizia e dell’affetto che mi stai dimostrando e che non mi ha mai fatto mancare.
Spero solo di essere all’altezza delle tue, delle vostre, aspettative, ma ti assicuro che ce la metterò tutta». Bruno gli rispose dandogli appuntamento al giorno dopo, alle otto del mattino, per la colazione al bar vicino l’azienda. Si salutarono e chiusero la telefonata. Andrea chiamò la madre per raccontargli questa storia incredibile, lei si commosse e si mise a piangere. Immaginava lo sguardo della madre, la luce degli occhi che gli avrebbe illuminato il volto se solo fossero stati di fronte e non al telefono. Si dice spesso che siamo lo sguardo degli altri, ma soprattutto siamo lo sguardo dei nostro genitori. L’assenza del padre, in tutti quegli anni, si era fatta sentire con tutta la sua forza, ma la presenza della madre, una donna meridionale di una bellezza mediterranea e con una resistenza che solo certe donne del Sud hanno, aveva alleviato ogni dolore.
Per Andrea la madre era tutto, era la calma e la pace, l’abbraccio e la consolazione. Tutto. Si salutarono augurandosi la buona notte, poi si distese sul divano ed accese la televisione. Sullo schermo scorrevano le immagini della domenica calcistica, nella sua mente ripercorreva le tappe della sua vita e dei suoi tanti lavori. Viveva emozioni contrastanti: da una lato era agitato e ansioso, dall’altro era mosso da uno strano entusiasmo con il quale non aveva mai avuto un bon rapporto. Già, perché la sua generazione era ormai forgiata più dalla fine che dall’inizio, perché non era abituato più all’entusiasmo e si era adeguato alle sconfitte. Ma vivere così non è possibile. Ognuno ha il sacrosanto diritto alla serenità, prim’ancora che al lavoro. Perché la dignità che da il lavoro non ha eguali, certamente, ma la serenità di poter immagina e costruire una vita più lunga di un contratto a scadenza semestrale è una necessità che nessun diritto ha ancora garantito. Non riusciva ad immaginarsi in un mondo così diverso dal suo, a fare cose che mai aveva fatto in vita sua. Aveva visto film e documentari sul vino, letto romanzi, bevuto chissà quanti bicchieri in tutti questi anni, ma di come funzionasse quel mercato e delle sue dinamiche non sapeva proprio nulla. Chiuse gli occhi, la giornata era stata piena di emozioni forti. In tv discutevano del gol in fuorigioco e del rigore non fischiato. Era stanchissimo, non riusciva nemmeno ad alzarsi per andare a letto, sentiva addosso tutto la gravità di questi anni, della rincorsa, delle continue interruzioni. Alla fine si addormentò sul divano con addosso gli abiti del giorno. Solo verso le quattro del mattino si svegliò, spense la tv e con gli occhi semi aperti se ne andò in camera da letto. Mise la sveglia alle sette, si girò da un lato del letto, poi dall’altro e alla fine si riaddormentò. Che cosa sognò quella notte? E chi lo sa! Ma se vi capita di andare in centro, in qualche vineria, a bere del buon Aglianico, magari ascoltando Chet Baker che suona per voi “Lament”, sappiate che da lì è sicuramente passato Andrea, che per passione racconta storie del vino e per lavoro lo vende ai migliori bistrò d’Italia, da Nord a Sud. Perché la vita è l’arte dell’incontro, l’attesa dell’alba nuova che prima o poi verrà, la somma delle scale da salire per vedere meglio la vetta, la seconda possibilità che tutti meritiamo.