Si svegliarono lentamente mentre fuori una pioggia leggere bagnava il giorno.
Era domenica, una domenica di autunno con colori che cambiano e la luce ipnotica che provava a resistere all’assalto del grigiore. In quella casa di mare ci tornavano spesso, non solo d’estate per le due settimane di ferie che riuscivano a guadagnarsi dopo un anno intero di fatica e rincorse. In questo posto davanti al mare tornavano spesso, soprattutto quando iniziava la stagione dei colori più caldi, intimi, dei pesi e dei contrappesi, dei nuovi inizi e di quella strana non-attesa, forse un refolo, forse un ricordo. Lui si alzò dal letto, senza fare rumore, mentre lei si regalava ancora qualche minuto ad occhi chiusi. prima di incontrare il nuovo giorno. Entrò in cucina per preparare la colazione, da consumare lenta tra le lenzuola ed il tavolo della cucina. Aprì la finestra ed ai suoi occhi apparve all’orizzonte un mattino disincantato. Da un lato c’era il mare, dall’altro una cartografia disordinata delle umane debolezze si mostrava con tutto il suo carico di ansie e meraviglie. Le radici profonde del dolore si perdevano nella terra, bagnata da lacrime e silenzi metallici. Tutto era fermo, immobile, disegnato in un perimetro di ferro e legno, bagnato dall’acqua salata.
La caffettiere iniziava il suo concerto di acqua e polvere, lui andò nella sala dei libri e delle ceramiche a scegliere il vinile per celebrare il nuovo risveglio. L’atmosfera sospesa e la lentezza che serve ad ogni risveglio nel fine settimana, lo ispirarono al punto che la sua scelta fu immediata e sicura. Prese dalla copertina nera, con molta attenzione, il vinile dei Cigarette After Sex comprato a Berlino in serata piovosa ed intensa, come solo l’inverno della Germania androgina sa essere e sa fare. Lo mise su, facendolo partire dalla sua preferita: “So Sweet”. Come in una palestra dell’anima, il suo passo si faceva più leggero e armonico, così come le gambe di lei, ancora a letto, che si allungavano fuori dalle coperte in cerca del raggio di sole più caldo. Il caffè era lì, pronto a venire fuori come un magma nero e dolcissimo, il mare sullo sfondo ondeggiava e reggeva il peso dei pescatori, dei loro anni, del loro lavoro. Il silenzio odorava di caffeina e di buono, il calore della casa rigenerava la palle e le ossa provate da una settimana di pioggia intensa e dritta. Tutto si era magicamente fermato, plasmandosi alla loro volontà ed al bisogno di rallentare la corsa folle del quotidiano.
La musica andava, entrava con eleganza nelle orecchie e correva nel sangue fino a toccare le pareti più nascoste del cuore. Era il rimedio necessario, il bisogno primordiale che bisognava soddisfare. Perché la musica permette ai sentimenti di ripararsi dal vento e dal mare in tempesta, sopravvivendo alla banalità del male, della mediocrità dell’odio, degli egoismi affilati come coltelli da macellaio. Rientrò in cucina, si affacciò alla finestra, prese il suo taccuino di appunti sparsi, una sorta di bestiario delle umanità incrociate per strada, e scrisse.
Non c’è rimedio alla morte, non c’è sollievo al dolore, non c’è alternativa al vuoto. Tutto è sospeso in attesa che venga il giorno in cui tutto si compirà. La vita gettata come un ponte si agita per far sentire il suo battito, affannando il respiro e urlando presenze. Le assenze sono la cifra del nostro cammino, che nel tempo più lungo si circonda di solitudini e vuoti. E’ dentro che la vita si deve fare colorata e gentile. E’ nei sentimenti che l’esistenza si deve riempire come un vaso di terra per far nascere il fiore. Ed è quel fiore piantato al centro del petto che dobbiamo saper coltivare, proteggere, allontanare dal fuoco.
Si alzò per spegnere il fornello del gas, il caffè era pronto. Mentre lo versava nelle tazzine vietresi, si ricordò quello che un suo caro amico giornalista gli scrisse una volta: “Si può amare solo chi non è mai sazio delle nostre parole. Chi rifiuta le nostre parole rifiuta la nostra anima. I corpi, cioè le anime, sono parole. E solo quando nemmeno una parola rimane ferma in gola il corpo non sente freddo.”
Sorrise, chiuse gli occhi per un istante come per darsi la rincorsa, ed andò in camera da letto dove lei, Bianca, lo sta aspettando per consumare il rito della colazione. Intanto la musica danzava sulle pareti, il mood era quello giusto e lui lo sapeva. Le diede un bacio, poi un altro e poi un altro ancora. Le si alzò, andò verso la finestra socchiusa e l’aprì completamente. I suoi occhi azzurri divennero color mare in pochi secondi. Che poi, di che colore sia il mare nessuno lo sa. Eppure tutti lo vedono, lo riconoscono, lo sanno riconoscere. Parlarono, lo facevano spesso, in verità. Parlarono a lungo di design degli interni, della loro futura casa, di passini, spiritualità, di Israele e di Andrés Neuman. Progettarono la loro esistenza nel tempo lento di un caffè e delle note di “John Wayne” cantata, anzi sussurrata, dalla voce angelica di Greg Gonzalez, graffiata dalla testina del giradischi. C’è una poetica dei graffi che le testine incidono sapientemente sulla gommalacca, così come c’è una mistica dei vinili e dei suoni del passato. E’ come se ci permettessero di riconnetterci con il tempo ormai andato, di cui conserviamo solo una memoria, delle foto e qualche racconto. Il vinile è la porta magica della nostalgia, contro la quale solo i cinici e gli insensibili possono scagliarsi contro. Loro lo sapevano, per questo si concedevano lunghe sessioni di ascolto di musica incisa sul microsolco. Quegli schiocchetti e quei fruscii, così autentici e puri, erano per loro un nodo necessario per riconnettersi alla normalità dei difetti, cancellati e ma non sepolti dalla continua e affannosa ricerca della perfezione che la modernità ci impone. La stessa che ci spinge a mostrare di noi stessi sempre e comunque il profilo migliore, un racconto inutile e stereotipato di eventuali successi fatto di ammiccamenti e banalità per il solo gusto di dover piacere. Sempre e comunque. Ora e subito. Più di ieri. Più degli altri.
Questo rito intimo, questo ascolto silenzioso e protetto, era il loro luogo ideale, il buen retiro in cui sceglievano di rifugiarsi quando il tempo si inaspriva e l’umanità mostrava i canini della sua ferocia. Per il loro amore questo era anche un momento in cui le parole si saldavano ai giorni, diventando concrete e tangibili, visibili. L’amore, che ha la necessità di essere compreso e l’ambizione di mostrarsi nella sua interezza per poter essere condiviso, sente il bisogno di immergersi in una vasca di acqua pura e rigenerante.
Il loro amore, così bello perché interiore, si nutriva di questa luce che dava loro respiri e forza nella gambe. La musica, una certa musica, era l’architrave della loro esistenza, del loro stare al mondo. In quella mattina di ottobre il miracolo della normalità si era compiuto. Tutto era a suo posto, ogni parola era caduta esattamente lì dove era attesa. E mentre la testina compiva il suo ultimo giro, un tenero sole faceva capolino tra le nuvole, illuminando il mare e le barche che lo attraversavano.
La musica era finita, il sole era alto, la meraviglia era aperta sull’altrove.