Per fumare un sigaro in santa pace se ne andava a passeggiare lungo il fiume che attraversava la città. Da qualche tempo era diventata una sua abitudine, specie quando l’aria era più mite e la luce trionfava sulle nuvole. Faceva almeno sei volte il percorso, su e giù, e poi si fermava lungo la riva a riposare. In solitudine, ovviamente. In quella striscia di terra riusciva a raccogliere tutto: pensieri e idee, ansie e desideri, sogni e parole. Così, dopo aver ascoltato a più riprese l’Opera 50 di Gabriel Fauré, si sedette su un muretto che affacciava sul letto del corso d’acqua. Chiudendo gli occhi, si fece accarezzare dal sole e dal vento placido, come una mano gentile che si poggiava sulle spalle e lo massaggiava lì dove si incrociano le ansie, le paure, i ritardi, le parole degli altri, quelle non dette, le frustrazioni, i troppi caffè, la fretta, i timori di non essere mai all’altezza, di non essere perfetti, di non essere sempre pronti. Sentiva il rumore del fiume che si muoveva a passo di musica tra pietre ed i rami. Si sentiva sollevato da quella corrente, i suoi pensieri camminavano sull’acqua a piedi nudi.
Veniva da una notte agitata, da un sonno spezzato a metà da un sogno improvviso e fragoroso. In preda all’insonnia, verso le quattro del mattino, decise di alzarsi, andare in cucina, bere molta acqua e fermare su carta le immagini oniriche ancora vive sui suoi occhi. “ Umido e stretto nel cammino, tra foglie morte e terra di pioggia, attraverso il sentiero di foresta d’autunno in un silenzio solitario e pesante. Ogni cosa mi sfiora le braccia, mi tocca le gambe veloci che si muovono in cerca di terra asciutta, senza pericolo. Solo. Stringo forte un ramo, lo raccolgo da terra. Faccio forza sulle gambe per superare la salita. Trovo ancora alberi e rivoli di acqua, rumori sordi e voci lontane. D’un tratto, alla vista del fiume, la paura lentamente si addormenta. Sento questo luogo dentro di me, un’immagine della mia esistenza che qui è già stata o che qui mi riporterà. Rallento il passo, la natura mi parla con la sua ferocia e la sua bellezza. Gli alberi mi bisbigliano parole che non riconosco, ma non mi sento più straniero, ripudiato, estraneo. Trovo una pietra, un grosso masso, mi siedo. Respiro profondo, lo porto fino a dove posso. Per catturare la purezza del profumo e trattenerne il sapore. Chiudo gli occhi, un piano ed un violino, qui al mio fianco, suonano armonie nordiche e profonde, che scavano dentro e risalgono dolcemente fino al sorriso, agli occhi sereni. Poi il risveglio, nulla di quel mondo in questa stanza”.
C’era Satie a ritmare il suo sguardo perso nell’acqua. Stava bene, non aveva alcuna voglia di andare via, anche se il tramonto si stava spegnendo dietro il grigio del ponte e le sue forme geometriche talmente belle da farne un’opera d’arte. Alcuni bambini giocavano più in là, con un pallone rosso. Ciclisti e runner si facevano strada tra la gente che lenta marciava sulle mattonelle che decoravano il cammino. Non sentiva alcun rumore, la musica era a volume alto e lo isolava da tutti. Da tutti. Prese la sua Molesikine ispirato da tanta bellezza, da quella poesia, e lasciò che la penna nera colorasse di parole le pagine chiare. “Cosa resta? Cosa resta di una stagione tra nuvole e sudore, di parole al telefono e istanti saturati? Cosa resta di un pezzo di te che non torna più, e di un altro che si posa, dentro, come il suono di un piano al tramonto? Cosa resta di quei giorni, degli attimi, e delle ore passate ad aspettare che il caldo diventasse tramonto che l’alba iniziasse a bruciare? Cosa resta di tutto questo nostro fare e disfare? Restano sulla pelle viva le cose che contano, che vanno salvate. Che non sono mai solo cose. I momenti in cui gli occhi incrociano il mare, quelli in cui la musica salda le distanze. Restano i pochi abbracci sicuri, gli sguardi gentile a cui non sappiamo resistere, e le parole che restituiscono umanità e bellezza. Resta il rumore del mare. Il canto del gallo. Il suono della campana. Il sorriso fiero del contadino. La mattina fredda dell’operaio. La notte cupa del guardiano. Le urla dei bambini fuori la scuola. Le parole bisbigliate nelle chiese. Il suono dei passi negli ospedali. Il frastuono dei bar di periferia. La calma apparente delle sette del mattino. Ma resta anche la delusione come una cicatrice marcata a ferro e fuoco. Restano gli schiaffi della vita. Quelli di tua madre che mai dimenticherai. I dolori di tutti i giorni, le delusioni inaspettate. Le paure con cui non sappiamo fare i conti. Restano le parole non dette, gli amori mai dimenticati. I sentimenti repressi, il pianto mai sfogato. L’abbandono, il silenzio, la morte. Restiamo noi, corpi desiderosi di piaceri immortali. Acrobati sul filo del tempo, che giochiamo con il fuoco e aspettiamo impazienti che ci sia solo buon vento”.
L’appuntamento era alle 19:30 nei pressi della Villa del Prefetto, uno spazio urbano rigenerato per i giorni della festa patronale. Il programma era denso di appuntamenti, con un festival di musica folk nella piazza centrale ed uno più off nel campetto da calcio della villa. Per lui era la prima volta che viveva questa festa così tanto attesa durante l’anno. In moti gli avevano raccontato delle lunghe notti passate a ballare canzoni della tradizione popolare potentina, bagnate dal vino e colorate di vita piena e splendente. Si chiedeva come mai durante tutto l’anno la stessa città fosse così silenziosa e discreta, mentre in quei giorni di primavera inoltrata si lasciasse andare mostrando la parte più calda, più viva. Risalì con la bici verso casa, a via Torraca. Una doccia, un cambio d’abito e via verso la piazza. Già dai primi passi in via Pretoria capì che c’era qualcosa di diverso nell’aria e che tutte quelle persone erano lì per vivere insieme quel momento di festa. Non aveva mai visto così tanta gente in quella via stretta e lunga, nemmeno nella notte dei festeggiamenti per la promozione della Potenza Calcio. Dopo venti minuti arrivò all’ingresso della villa. Ad aspettarlo c’era Rocco Spagnoletta, musicista e cantante di un gruppo molto noto in regione, conosciuto di recente dopo un’ospitata nel programma radio che con altri due speaker conduceva ogni giovedì. Quella sera raccontò del suo rapporto con Potenza, del suo innamoramento per la Basilicata, provando a dare un punti di vista differente alla narrazione così stereotipata che da sempre accompagna questo pezzo di Sud.
Con Rocco e la sua compagna, Anna anche lei, scesero lungo le scale della villa verticale e già quella dimensione gli restituiva l’unicità di quel luogo. Sui diversi livelli si distribuivano bambini e ragazzi, giovani coppi e signori avanti con l’età. Una comunità così variegata tenuta insieme dalla voglia di potersi riappropriare di quello spazio urbano pieno di verde e di suggestioni. Presero da bere, si misero comodi sulle panche di legno e cuscini, e aspettarono l’inizio del concerto di Nicolò Carnesi, cantautore siciliano raffinato e molto ispirato. Anna, la sua Anna, lo raggiunse a metà concerto: nonostante fosse domenica aveva dedicato tutta la giornata al lavoro per la chiusura di alcune pratiche in scadenza e rimandate da troppo tempo. Restarono a lungo in quella villa, anche dopo la fine del concerto. Scambiarono quattro chiacchiere con Carnesi degustando birra locale e fumando più di qualche sigaretta. Poi risalirono lungo le scale, una bella fatica dopo tanto fumare. Giunsero in piazza Mario Pagano e si ritrovarono nel bel mezzo di una grandissima festa. Ballarono fino a tarda notte, senza mai guardare l’orologio, solo con la voglia di stare insieme e sentirsi parte di una comunità danzante e felice. Non gli sembrava vero, la stessa città che durante l’anno restava chiusa nei palazzi di cemento e vetri adesso era tutta lì a muovere gambe e braccia al ritmo della musica popolare. Era felice, stava bene, era con Anna e tutto gli sembrava famigliare, suo. Se quella sera qualcuno gli avesse chiesto di scegliere tra tronare a Roma o restare a Potenza, lui sicuramente avrebbe risposto che era lì, in quella città, che avrebbe voluto trascorrere il resto della sua vita. Ma quella domanda non gliela rivolse nessuno, nemmeno Anna. Soprattutto lei non glielo aveva mai chiesto.
Ed era quella la sua più grande paura.