La voce metallica della metropolitana annunciava l’arrivo del treno per Laurentina. Il caldo della primavera iniziava a farsi sentire anche lì sotto, dove l’umanità con tutto il suo catalogo di quotidiane asperità, si muoveva con passi rapidi verso porte di vetro ad apertura automatica. Una massa indefinita di persone si accalcava su quei vagoni ogni giorno, diretta chissà dove per fare chissà cosa. La guadava da lontano, con occhio straniero ormai. Nei loro occhi, nei volti, percepiva tutto il carico di ansia e dolore di questo tempo così acerbo. Qualcuno leggeva libri, altri ascoltavano musica o mandavano messaggi, altri ancora guardavano nel vuoto in attesa che quel tempo sospeso passasse il più velocemente possibile. Chiuso nel suo abito scuro con cravatta sartoriale napoletana, camminava tra i suoi pensieri in cerca di risposte. Ogni tanto guardava il telefono e ripeteva in mente le parole giuste per l’incontro di lavoro che di lì a poco si sarebbe celebrata. Già, perché per lui questi incontri erano una sorta di celebrazione laica, un rito spesso stanco, del quale conosceva a memoria tempi e dinamiche. Sapeva bene quando ascoltare e prendere appunti, mostrandosi interessato alle parole dell’interlocutore, ma sapeva benissimo anche quando alzare il ritmo, prendere la parola, salire sui pedali e iniziare la scalata. Una volta in cima, c’era solo da gestire la discesa, con i suoi tornanti e l’arrivo morbido.
Sapete cosa diceva Quirico delle discese? “Rovescio della salita, la discesa è un’ubriachezza, un simbolo anche lei, quello della Caduta. I discesisti flottano sul pericolo, guardando lontano davanti a sé, non usano le mani, disegnano in testa la traiettoria della curva e la disegnano come un teorema matematico: ecco è fatta, sotto un’altra. A cento all’ora”. Ecco, lui era diventato esattamente così, uno scalatore in attesa della discesa, consapevole del rischio e affamato di velocità.
Prima di entrare in sala riunioni scrisse un messaggio per Anna.
Ho lasciato i biscotti sul tavolo, il disordine sul letto, carte e fili sulla scrivania. La pianta non da più segni di vita, mi sa che forse l’ho trattata un po’ male. La macchina è parcheggiata bene, le chiavi sono al solito posto. Sono uscito presto questa mattina, tu stavi ancora dormendo e non mi andava di svegliarti. Ora ho una riunione, sarà lunga, ma ti ho lasciato un bacio ed un caffè pagato al bar sotto casa. Sei dovunque, furi e dentro di me. Tuo. Si, tuo.
Ma non lo mandò.
Entrò in riunione e si concentrò solo su quello che aveva da fare. Mai come in questo periodo ne aveva bisogno, per cercare un luogo diverso dove non ci fosse Anna, per capire se davvero era possibile stare senza di lei.
Tre ore, due call e due caffè dopo, uscì dalla riunione con una fame incredibile. Salutò tutti, come al solito, stringendo la mano ad ognuno dei presenti, e se ne andò via correndo sulle scale. Scese in strada, via Somalia in pieno fermento, qualche goccia di pioggia e pochi turisti. Due semafori dopo entrò in un sushi elegante e molto spazioso. Dieci minuti dopo chiese le posate alla cameriera dallo sguardo orientale ed il profumo francese. Non sapeva mangiare con le bacchette, nonostante fosse un addicted della cucina giapponese. Sashimi, Uramaki e Nigiri, come sempre, ed un piatto di fettuccine alla piastra. Al tavolo sulla sua destra, due uomini ed una donna, tutti giornalisti, alle prese con retroscena sulla formazione del governo dopo le elezioni del 4 marzo e qualche racconto di sentimenti interrotti. Tre tavoli dopo, sola e con gli occhiali scuri c’era lei. Veronica. Bellissima, in abito scuro e tacco alto, capelli raccolti e trucco leggero. Non sapeva che fare, se andare da lei o far finta di nulla. Era arrivata lì da poco, non c’erano piatti sul suo tavolo e la bottiglia dell’acqua era ancora chiusa. In casi del genere non sai mai che fare, non c’è una regola o un bugiardino a spiegarti le controindicazioni. Per ironia della sorte, dalle casse del ristorante partì l’ultima dei Baustelle, Veronica, N.2. Decise quindi di aspettare il ritornello, che sapeva già a memoria, per mandarle un messaggio.
Per colpa di Veronica
È tempo di Veronica
Giorni di Veronica
Solo per Veronica
La pelle di Veronica
Gli occhi di Veronica
L’ombra di Veronica
Vivi per Veronica
Vedi Veronica mangiare Sushi…
Alzò lo sguardo, si tolse gli occhiali da sole, si guardarono negli occhi per trenta lunghissimi secondi, senza dire una parola. Restando ferma al suo posto gli mandò un messaggio di risposta.
Pensi di voler continuare a cantare ogni canzone che passa la playlist del locale, oppure ti alzi da quel tavolo triste e vieni da me?
E lui: Non sfidarmi, sai che sarei in grado di cantarle tutte senza cercare i testi su Google. Adesso mi alzo, vengo lì e ti rubo la salsa di soia.
Si alzò, pochi passi ed era davanti al suo sguardo. Il cameriere capì al volo la situazione e gli portò le su ordinazione al tavolo di Veronica. Parlarono, a lungo. Parlarono di tutto. Parlarono per tutto il tempo del pranzo e anche dopo, a casa sua. Come andò a finire è facile da intuire. Si salutarono abbracciandosi e nel momento in cui lui chiuse la porta di casa dentro gli scoppiò una tempesta. Il senso di colpa lo stava devastando, sapeva di aver fatto una cazzata ma ormai non poteva più farci niente. Che fare? Lasciare che tutto morisse tra quelle lenzuola? Dirlo ad Anna? Raccontarle la verità e perdere anche lei? Ritrovarsi tra le braccia di Veronica era stato bello, consolatorio, ma entrambi sapevano che nulla di nuovo sarebbe successo tra di loro. Il telefono squillò, era Anna, ma lui non rispose. Si fece una doccia, si preparò un caffè e se ne uscì lasciando dentro casa tutto il fracasso di quel pomeriggio scivoloso e profondo. Al suo ritorno era tutto ancora lì.