“Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione”. (Arthur Schopenhauer – ‘Parerga e Paralipomena’).
Rilesse più volte questo aneddoto, trovato per caso in una di quelle riviste distribuite gratuitamente sui treni e che davvero in pochi leggono. La distanza, l’assenza, la giusta misura, l’attesa, il ritorno. Pesò alla sua vita sentimentale, a Veronica e alle poche altre che davvero valeva la pena ricordare, e a tutto quel tempo volato via a cercare di vivere l’attimo perfetto, nel posto migliore, ad usare le parole giuste. Tutto tempo sprecato ad immaginare e nemmeno un minuto vissuto davvero. Quando cerchi la perfezione nei sentimenti non li stai vivendo davvero, ed è allora che devi fare un passo indietro e guardare le tue relazioni con più lucidità. E’ uno sforzo non facile, che implica una grande dose di maturità, ma il punto vero è che di fronte ai sentimenti che fanno battere i cuori non c’è esperienza che regga e non c’è ragione che possa ricalibrare la corsa. Se l’attesa è una mancanza perfetta, la distanza rischia di essere il luogo ideale dove poter far vivere sentimenti inespressi, ma che non provocano dolore. In questi tempi così liquidi, anche i sentimenti sono stati compromessi dalla crescita ossessiva delle individualità che non sanno essere parte di un tutto, di una comunità. Come nella bicicletta, il fiato ed i muscoli da soli non bastano, servono concertazione, voglia di arrivare, passione indomita e fiducia. In sé stessi e nell’altra persona.
Ciò che più manca è la fiducia, lo sentiamo sulla nostra pelle. La rabbia sociale ha scavato dentro ogni cosa, comprese le migliori intenzioni e le buona volontà, resistere è eroico e necessario, credere in un domani possibili è la sola alternativa che abbiamo all’odio. Nella sua vita gli abbandoni significativi, quelli che pensano ancora sulle braccia, erano cinque. Elena, la bambina che in quarta elementare gli rispose NO alla domanda “Ti vuoi mettere con me?”, scritta su un foglietto a righe; Flavia, la compagna di classe del liceo che lo invitò più volte a casa sua, dandogli sempre l’indirizzo sbagliato; Lisa, più grande di lui, che gli nascose per 6 mesi di essere già fidanzata; Valeria, che avrebbe voluto sposare, ma che lo lasciò due volte e sempre al telefono; Anna, che se andò a vivere a Milano un bel giorno di primavera, senza dirgli nulla; Eleonora, che lo cacciò di casa dopo averlo scoperto con una giornalista sua amica, mentre si baciavano in un ristorante di Ponte Lungo.
E Veronica? Non c’era spazio per lei in questa speciale top 5 degli abbandoni. Dal primo in giorno fino all’ultimo, aveva sempre sospettato che con lei, per colpa di quelle sue profonde e mai sanate fragilità non sarebbe mai decollata la loro relazione. Viveva con un senso di frustrazione e forse anche con un po’ di rassegnazione la sensazione che con lei, dalla mattina alla sera, sarebbe potuto finire così rovinosamente. Eppure tentativi di “normalizzare” la loro vita di coppo ce n’erano stati. Anche la scelta di andare a vivere insieme, proprio perché forte, era stata presa proprio per tentare di raddrizzare, con un gesto forte ma deciso, la corsa sfrenata e un po’ sbilenca di questo mancato amore. C’era un’altra favola, che spesso citava nelle sue lezioni con gli studenti di comunicazione: la rana e lo scorpione.
Uno scorpione chiede ad una rana di lasciarlo salire sulla sua schiena e di trasportarlo sull’altra sponda di un fiume; in un primo momento l’anfibio rifiuta, temendo di essere punta durante il tragitto, ma l’aracnide argomenta in modo convincente sull’infondatezza di tale timore: se la pungesse, infatti, anche lui cadrebbe nel fiume e, non sapendo nuotare, morirebbe insieme a lei. La rana, allora, accetta e permette allo scorpione di salirle sulla schiena, ma a metà strada la punge condannando entrambi alla morte; quando la rana chiede allo scorpione il perché del suo gesto folle, questi risponde: “È la mia natura”.
La natura di Veronica gli era sempre stata chiara, ma credeva fosse giusto poterle dare una seconda possibilità. La fine della loro relazione fu meno traumatica del previsto, per lui, e forse proprio per questo non ne sentiva il peso sul cuore e sulle braccia. L’unico dolore che voleva sentire, adesso, era quello delle gambe che spingevano sui pedali. Era domenica, qualche giorno prima del Natale, con il freddo pulito di Potenza e la lentezza tipica della mattina di festa. I bar profumavano di caffè e dolci caldi, i rumori erano meccanici e industriali, il freddo già pungente, sulle auto ogni mattina c’era una patina di ghiaccio a fare da coperta, ma l’aria sapeva di buono, di pulito.
Le strade, le molte scalinate, le vie che l’attraversano sono una specie di enciclopedia permanete e diffusa, un’opera di consultazione continua dell’umanità dei borghi italiani, al tempo della globalizzazione delle opportunità e dei suoi peggiori risultati. Va studiata fino in fondo una città così, si diceva spesso, guardata con attenzione per scoprirne la vera identità. Aveva un blocco di appunti sempre così, lo usava per scrivere frasi e brevi pensieri senza fretta. Ai suoi occhi Potenza si mostrava come una donna gentile e borghese, un po’ in là con l’età, ma dignitosa e discreta. Quella domenica pomeriggio era diretto allo stadio Viviani. Per uno abituato alla serie A, gli sembrava abbastanza assurdo che un’intera città potesse vivere con ansia ogni partita del Potenza, Certo, il calcio sa essere un grande aggregatore di persone e storie, capace di far vivere emozioni forti e delusioni profondissime a tutti, ma che un campionato di serie D, giocato nei campi delle periferie del nostro scontento, potesse suscitare tutta questa fibrillazione era davvero troppo. Colse subito l’invito di un giornalista, conosciuto durante le diverse conferenze stampa che per lavoro aveva tenuto negli ultimi mesi, curioso com’era di vedere da vicino il popolo rossoblù ed i suoi 11 leoni.
Era l’ultima giornata del girone di andata, il Potenza, dopo una serie di successi e gol che l’avevano portata in testa alla classifica, aveva subito una frenata brusca durante un derby ed un paio di pareggi che pesavano molto sulla classifica, tanto da farle perdere il primato. Nonostante il freddo l’atmosfera al Viviani si era fatta subito calorosa e inquieta. Nelle chiacchiere, nelle parole ai bar, tra i tifosi di ogni età che stavano riempiendo gli spalti, l’imperativo era solo uno: vincere. E sperare negli altri campi. Si accomodò nei pressi dell’area stampa, non proprio una tribuna dedicata ma un tavolo stretto e lungo sul quale giornalisti della radio e della carta stampata si erano assiepati. C’erano anche delle telecamere, una andava in diretta su Facebook con ospiti, commenti e la cronaca della partita come se fosse la Tv.
Più si guardava intorno e più si chiedeva se davvero quello era un campo da serie D. Un’organizzazione così perfetta, le attenzioni mediatiche, i dettagli dell’accoglienza, l’eleganza delle tribune vip, il tifo caldo e continuo della curva, meritavano di certo una categoria superiore. Un signore sulla sessantina, seduto al suo fianco, gli raccontò degli antichi fasti del Potenza calcio, degli anni della serie B e dell’incubo dei fallimenti. “Io sono sempre stato seduto qui” , gli diceva con orgoglio, “e fino a quando il Potenza non tornerà in serie B non cambierò posto!Ora c’è questo presidente, un tipo tosto e capace. Di lui mi voglio fidare!”.
Guardava la partita, non uno spettacolo per gli occhi ma tanta sostanza per la classifica. Gol del brasiliano, pubblico in delirio, Potenza primo e campione d’inverno. Il freddo del pomeriggio si era trasformato in un caldo abbraccio pieno di colori e sorrisi. Quanta passione, quanta vita che scorre elle vene della domenica del calcio senza VAR e grandi spot. Lo chiamano “calcio minore, ma è solo un modo poco elegante di definirlo; eppure è lo sport più visto e vissuto nell’Italia dei piccoli e medi comuni che rappresentano la spina dorsale del nostro paese. L’Italia interiore si può raccontare in ogni modo, con poesie e romanzi, con mappe, statistiche, studi e geografie di orientamenti culturali, sociali e politici, ma la domenica, ogni maledetta domenica, c’è un pezzo d’Italia che si ritrova negli stati a gioire o soffrire per un palo ed un gol.
Con l’amico giornalista se ne andò in sala stampa, per vedere da vicino gli eroi della giornata ed ascoltare le parole del post partita. Fu attratto, senza nemmeno volerlo, dal carisma del presidente, uomo ancora giovane e dall’aspetto molto rock. Rilasciava interviste alle radio locali, si concedeva a selfie e firmava autografi. Aveva un abbraccio per tutti ed una parola gentile anche per gli avversari. Più lo vedeva e più si rendeva conto che quel signore, grande tifoso, aveva proprio ragione: il presidente aveva un vento dentro che lo distingueva dagli altri. Quale sarebbe stato il futuro del campionato del Potenza nessuno poteva immaginarlo. Però una cosa era certa: una nuova storia era già iniziata, ora occorreva solo renderla unica e memorabile.