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Un giorno questo calcio sarà tuo. Dialogo con Fulvio Paglialunga

USB - Ufficio Stampa Basilicata 22 Novembre 2017
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Il calcio fatto di uomini e di storie, di passaggi della storia e di quelli sul prato verde. Il calcio sa anche unire generazioni, farle incontrare non solo sugli spalti ma anche in campo. Ci sono storie di generazioni, di uomini e calciatori, che hanno avuto come teatro lo stadio e la sfera degli affetti familiari. Fulvio Paglialunga, giornalista e autore Rai, racconta le storie dei padri e dei figli, campioni e non, del pallone nel suo secondo libro ‘Un giorno questo calcio sarà tuo’ (Baldini & Castoldi, 2017).

(Mazinho e Thiago Alcantara)
Fulvio, c’è una regola fissa che va rispettata: i libri non si raccontano ma si leggono. Se questo è vero, allora perché dovremmo leggere le storie più o meno note dei padri e dei figli del calcio?
Perché messe insieme formano una unica grande storia: parlano di un calcio che a volte sottovalutiamo o che non analizziamo mai tutto insieme, quello che rappresenta un valore, un patrimonio nostro e un’eredità di famiglie. Un momento fortissimo di condivisione: quando un padre appassionato di calcio arriva a parlare di pallone con il figlio ha elevato il livello di complicità, ha reso ancora più forte il rapporto. E questo lo si comprende vivendo la propria storia, di padre o di figlio, e leggendo le storie degli altri, di padri e di figli.

(Diego Armando Maradona e Diego jr)
Un vecchio adagio dice che “non ereditiamo la terra dai nostri avi; la prendiamo a prestito dai nostri figli”. Vale lo stesso per il calcio?
E’ esattamente lo stesso, quindi prima di ritirarci in opposizione al cosiddetto calcio moderno dovremmo pensarci. Se lasciamo al calcio spazi vuoti per muoversi senza di noi, i nostri figli non ne troveranno di liberi e non conosceranno quello straordinario strumento di passione che abbiamo conosciuto noi. Peraltro proprio l’adagio esprime un concetto di cui parlo nel libro: noi siamo il calcio moderno dei nostri genitori, anche loro hanno visto il cambiamento del pallone in funzione dei tempi che si vivevano e non hanno mollato. Per questo siamo attaccati al pallone, per questo abbiamo il dovere di tramandarlo con lo stesso amore.
(Davide e Carlo Ancelotti)
C’è un passaggio molto personale in questo tuo libro, e riguarda il tuo rapporto con tuo figlio e la partita. Che sensazione hai provato in quel pomeriggio quando con il piccolo Claudio avete varcato la soglia dell’ingresso dello stadio?
Quasi non ci credevo. Perché era un momento che aspettavo da quando è nato: poterlo portare nel posto in cui io sono diventato adulto, per mestiere e per passione, e farglielo vivere. Mostrargli la mia casa e capire se piaceva anche a lui. Per questa ragione ero anche teso: se non gli fosse piaciuto? Invece gli è piaciuto e molto, quindi ora tra noi c’è un elemento in più da condividere. Bello e importantissimo.

(Paolo e Cesare Maldini)
Vi è un’umanità nel calcio che spesso non riesce ad emergere. I racconti dello sport più amato non sempre portano in luce la bellezza delle relazioni e degli affetti. Non sono mainstream e non fanno notizia. Allora perché raccontarli?
E’ una forma di resistenza: chi ama il calcio sa che è fatto da uomini, con le loro debolezze ma anche con la loro bellezza. Dall’esterno sembra che “funzioni” solo parlare delle debolezze, che sia argomento di discussione più semplice. Allora la forma di resistenza è raccontare il bello, mostrare a chi si nutre di debolezze che a un certo punto dev’essersi distratto. Poi sono scelte: io il calcio non riesco a viverlo diversamente da così, se non fosse una storia di grande passione non ne avrei mai fatto un impegno quotidiano.

(Johan e Jordi Cruyff)

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 Anche il calcio di provincia, quello della serie D, stenta a fare notizia. Eppure “ogni benedetta domenica*” gli stadi delle nostre periferie si riempiono di colori e di vita. A Potenza, ad esempio, sono tanti i padri ed i figli che sono tornati allo stadio o che ci sono entrati per la prima volta. Fare comunità, essere comunità. Il calcio senza luci della ribalta è senza VAR ha ancora una sua valenza sociale?
Il calcio di serie D è uno strumento ancora più potente. Resiste una grossa parte di genuinità e, soprattutto, è una grande prova d’amore. E’ facile, ora che ci sono le televisioni, innamorarsi di una squadra di serie A o anche di un campionato estero. E’ possibile e dobbiamo accettarlo. Ma restare attaccati a una squadra di serie D, che evidentemente non può che essere la squadra della propria città, è un legame come pochi altri. Da questo punto di vista, parlando di realtà più piccole, la valenza sociale è ancora più alta: i risultati, o anche semplicemente un’esposizione di bellezza, fanno sicuramente vivere meglio tutti, dalla mattina al bar ai pomeriggi lunghi in ufficio. Quando va male, invece, è facile percepire il risentimento di una città intera. Tutto questo lo dico perché anche la mia squadra è in serie D. E anche questo l’ho provato sulla mia pelle. 


*titolo del libro di Fulvio Paglialunga (Add Editoire, 2013)

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