Aveva letto un paio di cose su Potenza: le poesie di Vito Riviello, le interviste di Gaetano Cappelli, dei post su un blog e alcuni libri. Era rimasto piacevolmente colpito da uno in particolare, “Particella131”, di Rocco Catalano. Una sera a cena, parlandone con Egon, l’avvocato, e la sua amica Elettra, dagli occhi adamantini e l’intelligenza vivacissima, aveva scoperto che quel 131 era il numero civico di una via poco più giù dal centro storico. Un tardo pomeriggio, verso l’ora del tramonto, uscita dal lavoro se ne andò in biciletta a scoprire questa strada così famosa. Passò davanti lo stadio, evitando macchine indisciplinate e pedoni lenti, poi salì verso il rione Francioso e si lanciò deciso dentro via Filzi, in quel rettilineo che costeggia un lungo ponte, in alto, e la strada ferrata, in basso. La strada leggermente in discesa gli permetteva di rifiatare e rilassare i muscoli delle gambe, dandogli modo di poter guardare con la coda dell’occhio lo spettacolo della luce del tramonto di Ottobre che illuminava le montagne e la prima luna della sera.
I colori erano bellissimi, puri, definiti in ogni dettaglio, se avesse avuto più praticità con la macchina fotografica del telefono avrebbe scattato una foto da condividere su Instagram, ma si limitò a rallentare la corsa e goderne con gli occhi, l’anima e la fantasia. Si fermò ad un bivio, non sapeva dove andare. Decise quindi di seguire la strada e di andare dritto, seguendo leggero l’istinto. Più andava avanti e più non capiva come mai questa lingua di asfalto, costeggiata da palazzi di cemento e poco verde, potesse mai essere così piena di miti e aneddoti. Salì con la bici fino al bivio, incrociando lo sguardo di una vecchia casa cantoniera. A destra il percorso verso l’autostrada, a sinistra le curve e la salita verso la città antica. Girò l’angolo e ritornò sull’asfalto di via Torraca, sfruttando il più possibile la discesa ed il vento. Improvvisamente si ritrovò davanti una salita ripida ed in controsenso. Non sapeva che fare, per quanto si fosse allenato in nei giorni precedenti quella salita era al di là delle sue possibilità. Decise quindi di fermarsi, rifiatare e far riposare i muscoli delle gambe. Prese il telefono dalla giacca, attento a non farlo cadere, e iniziò a rispondere ai tanti messaggi che su Whatsapp e Facebook gli erano arrivarti. La sua era una dipendenza da smartphone, lì dentro aveva concentrato tutto il suo mondo lavorativo e non, ma era diventata ormai una sua protesi dalla quale non sapeva più staccarsene.
Del tempo liquido e della sua precarietà uno dei pochi vantaggi è che pe lavorare non c’è più bisogno di avere un luogo fisso, stabile, solido; il rovescio della medaglia è che non c’è più confine tra gli spazi di vita e quelli di lavoro e che il tempo è così dilatato che non concede pause, non offre distinzioni. Si rimise in sella pedalando con passo deciso e marcia leggera: quella salita era la sua sfida e non poteva tirarsi indietro. Un bambino affacciato ad un balcone iniziò ad applaudirlo, lo incoraggiava dandogli una spinta con tutta la voce che aveva in gola. Non pensava ad altro, voleva solo arrivare in cima. Non vedeva nulla, solo la fine di quella maledetta salita. Non sentiva nulla, solo i bit della playlist sparata ad alto volume. Era sudato, affannato, con lo sguardo stravolto dalla fatica, sentiva le gambe pesanti come un piombo e la schiena completamente spezzata dalla curvatura che gli aveva fatto prendere. Quella salita durò un’infinità, un tempo così dilatato che nessun orologio meccanico sa misurare. Quella strada così ripida era uno spazio dell’anima, un attraversamento interiore che nessuna parola, nessun aggettivo, è in grado di spiegare, di raccontare. Per lui contava solo arrivare, punto. Si era prefissato un obiettivo e voleva raggiungerlo. Poco gli interessava la strada da percorrere, la meta era la sua ragione. Due anni prima, in una sera dolce di Ottobre, bella e serena come solo l‘autunno romano sa essere, era con Veronica in un winebar della Garbatella.
Mentre finivano la cena, lei prese in mano un libro che aveva appena acquistato e ne lesse un passaggio. «Le montagne si dovrebbero scalare col minor sforzo possibile e senza fretta. La velocità dovrebbe essere determinata dallo stato d’animo dello scalatore. Se sei inquieto, accelera. Se rimani senza fiato, rallenta. Le montagne si scalano in un equilibrio che oscilla tra inquietudine e sfinimento. Poi, quando smetti di pensare alla meta, ogni passo non è soltanto un mezzo, ma un evento fine a se stesso. Questa foglia ha l’orlo frastagliato. Questa roccia è instabile. Da qui la neve è meno visibile, benché più vicina. Queste sono cose che dovresti notare comunque. Vivere soltanto in funzione di una meta futura è sciocco. E’ sui fianchi delle montagne, e non sulla cima, che si sviluppa la vita. Ma evidentemente senza la cima non si possono avere i fianchi. E’ la cima che determina i fianchi. E così saliamo.» “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, così si intitola questo libro scritto da Robert M. Pirsig nel 1974. Il racconto di Pirsing, pubblicato quasi per scommessa da una piccola casa editrice, divenne in poco tempo un best seller tanto da essere ancora venduto in tutto il mondo. La storia è molto bella, ed è una storta di narrazione autobiografica di un padre ed un figlio in viaggio dal Minnesota alla California, inframezzata da riflessione di carattere filosofico sulla Metafisica della Qualità.
Parlavano molto loro due, di sport e di politica, di cinema e di poesia, per questo appena finita la lettura di Veronica la discussione si snodò sul concetto di salita, di meta, di attesa e di impazienza. “Sai che con quella voce che hai potresti fare la speaker radiofonica?” – disse lui ridendo. “Smettila di prendermi in giro. Piuttosto, che ne pensi di quello che ho letto?” “Non so. E’ molto bello, dettagliato e ben scritto. Ma non mi convince affatto l’idea che vivere solo per raggiungere sia sciocco, inutile“. “Io credo che abbia ragione, sai?” – disse buttando giù un bel sorso di rosso “Dici?” “Si. Hai presente il concetto di utopia di Galeano?” “Si, certo, ma…” “Per me è la strada che fai che conta, non la meta. Conta il cammino che avrai fatto, se deciderai di iniziarlo. Altrimenti che senso ha la vita?” “Si, hai ragione. Ma non mi convince del tutto. Possiamo mai costruire le nostre esistenze sul mancato raggiungimento degli obiettivi? Anche i fallimenti lo sono, sia chiaro, ma proprio perché tali li tocchi con mano, esistono perché sono loro a guardarti fisso negli occhi. Stessa cosa per i successi, le poche soddisfazioni, le gioie. Ogni volta è una strada nuova, una salita impervia, ma se alla fine avrai raggiunto la cima ti sentirai pieno, soddisfatto. E potrai raccontarlo a qualcuno.““Probabile, ma tu riconduci tutto alla fine e non guardi mai la strada percorsa”“Si, forse è vero. Ma preferisco così. E poi c’è un’altra cosa che mi è piaciuta di quello che hai letto.” “Sarebbe a dire?” “La parola fianchi. Solo che io non penso certo a quelli della montagna, ma ai tuoi. “ “Sei un cretino!” “E tu sei bellissima, lo sai?”
Come andò a finire quella serata è facile intuirlo. Come si sentiva lui dopo la salita, potete solo immaginarlo. Si fermò, scese dalla bici ed entrò in un bar per riposare. Ordinò un succo di frutta, si mise comodo sulla poltroncina dando le spalle alla vetrata trasparente che lo divideva dalla strada. Nell’attea del succo iniziò a sfogliare le pagine già consumate dei quotidiani locali. Entrarono altri clienti che si avvicinarono al bancone chiedendo due caffè. Proprio mentre il barista gli portava il succo al melograno, si girò di scatto verso uno dei due avventori appena entrati e, rivolgendosi con voce timida gli disse:“Scusi ma lei è Rocco Catalano?” “Si, sono io. “ “Mi voglio complimentare con lei per il suo libro, mi è piaciuto molto.”“La ringrazio, è molto gentile. Davvero.” “Non si imbarazzi, immagino non sia la prima volta che le fanno un complimento del genere.”“Direi di sì, in verità. E’ la prima volta che un ciclista in un bar mi ferma per parlarmi del mio libro.” – disse sorridendo “Ha ragione, ma stavo in giro in città e mi sono fermato qui per riposare un po.’”“Ha fatto bene, questo è uno dei migliori caffè della città. Anzi, per ricambiarle la gentilezza le offrirò io il succo che sta bevendo.”“Grazie, ma accetto a duna sola condizione.”“Mi dica pure.”“Che ora lei mi racconterà tutto quello che c’è da sapere su questa famosa via Torraca e sui suoi abitanti più illustri.”“Ma certamente. Sediamoci pure”
Restarono seduti per più di un’ora, nel bar risuonava il jazz di Miles Davis e fuori il tempo sembrava come fermo, fotografato, traslucido. Seduti in quel caffè, Catalano gli raccontò degli intellettuali, dei giornalisti, dei politici, degli artisti che hanno abitato o che abitavano ancora in quella via che inizia in discesa e finisce in salita. Una metafora perfetta della vita a ben pensarci. Gli disse anche che c’erano degli appartamenti in fitto in zona e che per uno come lui potevano essere una buona soluzione. Si salutarono dandosi del tu, stringendosi la mano e con l’impegno a rivedersi molto presto. La sua strada era ancora in salita, verso la città vecchia ed il suo albergo. Salì in sella ed iniziò a pedalare, nelle orecchie le note di Romance / Hommage à Milhaud.