E’ il tempo che inganna le nostre attese o siamo noi a costruirci inganni per esorcizzare il passaggio del tempo? C’è un termine, Dolom, e c’è una poetica, quella di Daniele Sigalot, che ci impongono riflessioni più profonde e richiedono risposte urgenti a domande importanti.
La poetica di Sigalot, artista romano formatosi nel campo pubblicitario con esperienze internazionali, si materializza nelle sue opere esposte in una mostra, Dolom, fino al prossimo 19 novembre allestita presso il l Museo Archeologico Provinciale di Potenza, patrocinata da Regione Basilicata, Provincia di Potenza e Comune di Potenza, promossa e organizzata da Visioni Future, vivace realtà del panorama artistico internazionale e con solide radici lucane, con il sostegno di Ianus Servizi Archivistici e la collaborazione della Fondazione Città della Pace.
Il tema dell’inganno è centrale e si snoda negli spazi e tra le opere esposte, mescolate – ma non agitate- ai reperti archeologici risalenti all’epoca della Magna Grecia. La provocazione, mai banale, di Sigalot si materializza a pieno con l’opera Enough, un cronometro digitale a doppia alimentazione che dal 28 aprile 2016 conterà ore, minuti e secondi che condurranno l’umanità al 28 aprile 3016. Mille anni, un temo infinito se consideriamo le umane debolezze, ma di misura inferiore se paragonato ai reperti archeologici che lo contornano. In una recente intervista Sigalot spiegò così questa sua opera: “L’idea è nata quando mi sono chiesto quanto tempo deve durare una mia opera, e molto umilmente mi sono risposto mille anni”. Ambizioni artistiche di immortalità, che nel museo provinciale potentino fanno a schiaffi con il tempo raccontato da cocci, armature e pezzi di architetture antiche.
Come spiegato da Maria Letizia Tega, curatrice della mostra, “La contaminazione tra arte contemporanea e monumenti storici è di grande moda, ma non di facile realizzazione. Se non è sempre necessaria l’integrazione (per quanto auspicabile), è però indispensabile non oscurare il luogo che ospita l’opera. Per Daniele Sigalot non è stato difficile assorbire la storia di Potenza e le sue peculiarità, creando con il territorio un dialogo tra antico e moderno. Per questa ragione il titolo della mostra è in lingua osca, parlata anche in Lucania a partire dal IV sec. a. C. e di cui ritroviamo testimonianza nel Museo Provinciale.”
Ed è ancora la tega a spiegarci il senso dell’inganno: “lo stratagemma di Sigalot somiglia a quello di Vittorio Di Cicco, l’uomo che proprio grazie ad un’astuzia, è riuscito a proteggere il patrimonio archeologico lucano dal rischio di un imposto trasferimento in altre sedi. Al primo direttore del Museo si deve infatti il ritrovamento del Tempietto di Garaguso, uno dei più preziosi manufatti marmorei greci della Basilicata. Il reperto entrò a far parte del patrimonio museale non come rinvenimento fortuito, ma da uno scavo volutamente non documentato, condotto in epoca genericamente imprecisata “tra il 1915 e il 1918” da Vittorio Di Cicco, rimasto vago per poter conservare l’oggetto dove era giusto che restasse. Una concretezza, quella di Di Cicco, che meritava di essere omaggiata.”
La scelta degli areoplanini, declinati in vari modi, colori e materiali, risalta subito all’occhio del visitatore. Da quello che racconta Sigalot, la genesi di questa serie di lavori è nel libro di fumetti intitolato “Le Scoraggianti avventure di Blue and Joy”, libro scritto dallo stesso Sigalot ((Blue and Joy, 2006)) e disegnato da Fabio La Fauci nel 2005. Libro che è stato l’inizio della sua carriera artistica, e libro soprattutto dove i due personaggi principali, Blue e Joy per l’appunto, viaggiavano sempre su un aereo di carta, per inseguire i loro sogni più audaci. Aereoplanino di carta che immancabilmente finiva schiantato su un muro, o al suolo, a rimaneva incastrato in una nuvola. Quell’aereoplanino che si schiantava era quindi il progenitore di quelli che è possibile vedere all’archeologico potentino.
Sigalot sa stupire e incantare, accompagnandoci in un percorso di sensi e di immaginazioni, in cui la meraviglia per la bellezza non resta in superfice ma scava in profondo, restituendoci a pieno i limiti dell’esistenza terrena.