(Capitolo 3)
Era turbato, leggeva e rileggeva il messaggio di Veronica e non trovava parole per risponderle. Per fortuna arrivò il cameriere con i piatti a rompere la tensione che si era creata intorno a lui. “Allora: questa è una verticale di formaggi lucani, delle zucchine in agrodolce del nostro orto, alicette, pomodori secchi sott’olio, prosciutto crudo e salsiccia di suino nero lucano, e per finire dei peperoni cruschi appena fatti. Nell’altro piatto le sue verdure. Buon appetito“.
Si tuffò nel piatto, per dimenticare quel messaggio e scaricare l’angoscia che gli era salita. Ad un certo punto, dopo aver dato un solo morso ad un peperone chiamò il cameriere e gli disse:
“Scusi, ma questi peperoni come sono cucinati?”
“Le sono piaciuti, vero?”
“Si, ma non capisco. Mi dica di più, sono buonissimi”.
“Guardi, è un’antica ricetta della nostra tradizione. In pratica i peperoni dolci vengono prima essiccati al sole. Come da tradizione, ancora oggi i peperoni freschi vengono infilzati in fili di cotone, ottenendo così delle specie di collane che vengono poi appese fuori di casa, alla ringhiera del balcone, per farli essiccare.”
“E poi? Poi cosa si fa?”
“Una volta essiccati sono pronti per essere fritti e serviti. Ma attenzione: bisogna saperlo fare, altrimenti rischiano di bruciarsi.”
“Questa cosa è fantastica, io non ho mai mangiato un prodotto più buono di questo, mi creda!”
“Capisco, è sempre così. Ogni volta che un turista viene qui in Basilicata si sorprende sempre delle nostre ricchezze naturali.”
“Ha ragione, ma per me questo è il primo giorno a Potenza ed è la prima volta che vengo in Lucania.”
“E allora benvenuto! Lei non ha l’aria del turista, quindi probabilmente resterà qui ancora per un po’”
“Si sono qui per lavoro, me lo si legge in faccia, vero?”
“In verità in faccia le leggo un turbamento, come se portasse addosso un peso dal quale non riesce a liberarsene”
“Ma no, cosa dice!”
“Spero di sbagliarmi, ma intanto si goda queste prelibatezze e vedrà che tutti i pensieri le passeranno!”
Finito il pranzo, pagò il conto e se ne uscì dal ristorante con un sorriso che gli spuntava sulle labbra. Non sapendo cosa fare in quel pomeriggio libero, decise di ritornarsene a piedi in albergo. Prima entrò in una villa comunale, dall’aspetto gentile e ben curato, poi prese fiato, scelse la playlist sul telefono ed iniziò la salita. “Ma come fanno questi a vivere così. Questa salita è un inferno! Qui nemmeno Nibali, Bartali e Pantani ce la potrebbero fare. Maledetto freddo! E maledetto sia quel giorno che sono arrivato!” Il jazz di Monk e Coltrane gli davano la spinta, le gambe si muovevano decise, il cuore gli dava sangue, i polmoni l’ossigeno, l’adrenalina si faceva strada tra gli spazi lasciati liberi dai pensieri sfuggiti via. La salita era diventata già una metafora di qualche cosa, ma non sapeva ancora bene cosa.
All’arrivo, si fermò in vetta per rifiatare.“Che fatica! Però ce l’ho fatta, dai!” , si disse sorridendo in preda alla tempesta delle endorfine. Girò l’angolo e si tuffò nella città vecchia, attraversando via Pretoria per raggiungere il suo albergo. Vetrine lucide e portoni antichi, palazzi di pochi piani e poche persone che passeggiavano. Non era ancora l’ora dell’apertura dei negozi e si sentiva uno strano silenzio, lo stesso che lo aveva accolto al suo arrivo in stazione, talmente assurdo che quando gli squillò il telefono se ne accorsero anche due ragazzi che fumavano una sigaretta in un vicolo che dava sul retro del teatro della città.
“Pronto, mamma!”
“Come stai, amore mio?”
“Bene, un po’ affaticato, ma bene”
“Tu lavori troppo, figlio mio”
“Ma no, in verità oggi non ho quasi fatto nulla. Siamo ancora in fase di startup, ci stiamo dedicando ai preliminari. Ma già tra un paio di settimane vedrai come li farò corre!”
“E questo affanno? Ma stavi correndo?”
“Magari! No, mamma, tu non puoi capire. Qui ci sono solo salite, una città assurda. “
“Ah…”
“E ovviamente dov’è il mio albergo? Nella parte più alta della città!”
“Ma scusa, non potevi prendere un taxi? O affittare un’auto?”
“Guarda, qui di taxi ce ne sono tre e il carsharing mi sembra un sogno”
“Figlio mio, non farmi stare in pensiero…”
“Mamma tranquilla, cosa vuoi che mi capiti in un posto così? Sono le 4 del pomeriggio ed in giro non c’è quasi nessuno…”
“E Veronica?”
“Già, Veronica. Mi ha mandato un messaggio ma non le ho ancora risposto.”
“Ehm… io e te l’ho detto che quella…”
“Mamma dai, non ricominciare. Ora ti saluto, ci sentiamo domani. Un bacio, a venerdì”
“Ciao piccolo mio, chiama se hai bisogno”
Arrivato in albergo, prese la chiave alla reception, chiamò l’ascensore e una volta in stanza si lanciò sul letto con lo zaino ancora sulle spalle. A sera, dopo la cena, uscì di nuovo per fare due passi. Le gambe non facevano più male come prima e l’aria non era poi così fredda. Dopo una breve passeggiata in via Pretoria, si fermò davanti all’ingresso del Jazz Club. Timido e incuriosito, scese le scale ed entrò. Nemmeno il tempo di capire dove fosse e fu accolto da una bellissima sorpresa: Fabrizio Bosso e la sua tromba erano lì, al centro del suo sguardo, pronti a suonare del jazz.
Spente le luci, il trio e Bosso iniziarono la loro performance davanti ad un pubblico attento e subito rapito dalla magia delle note che si rincorrevano veloci, spinte dal fiato del trombettista torinese. Bosso iniziò a dialogare intensamente con contrabbasso e piano, mentre la batteria era lì a dettare i tempi del tip tap delle sue mani e dei piedi. Per anni aveva sperato di poter vedere dal vivo Bosso ma mai e poi mai avrebbe pensato che proprio qui, a Potenza, si sarebbe realizzato il suo sogno. Le spazzole accarezzavano il rullante, le dita pizzicavano piano il contrabbasso, il pianista faceva danzare leggere le sue mani sui tasti bianchi e neri. Bosso, in gilet e maglietta bianca, ritornava a soffiare nella sua tromba ed era un orgasmo di note e sentimenti, di pelle che non riusciva a nascondere le emozioni. Chet Baker, Dizzy Gillespie, Miles Davis e Lee Morgan si erano dati appuntamento qui, in questo club di provincia, con altri pochi fortunati, per sentire e vivere una notte di musica di libertà. A fine concerto, tra la gente che era fuori per fumare una sigaretta, vide che c’era il cameriere del ristorante dove aveva pranzato. Si avvicinò e con fare curioso gli chiese:
“Buona sera, anche lei qui?”
“Buona sera, ma che bella sorpresa! Anche lei amante del Jazz?”
“Si, mai suonato ma ne ascolto davvero tanto. E lei?”
“Beh, io sono un pianista jazz, diplomato al conservatorio. Il Jazz è la mia più grande passione, ma con la ristorazione ci campo meglio”, disse.
Era stupito, meravigliato, quel ragazzo che gli sembrava un calciatore era invece un musicista, diplomato. Restarono per un bel po’ a chiacchierare lì fuori, ad un certo punto si formò una strana comitiva con Bosso e gli altri musicisti. Prima di andare via si avvicinò al cameriere per salutarlo.
“Buona notte, allora.”
“Buona notte a lei.”
“Ma quale lei, diamoci del tu, Riccardo”, gli disse sorridendo.
“Certo, hai ragione!” “E’ stata davvero una bella serata. Che regalo inaspettato. La vita
è così piena di amarezze…”
“Be’ dai, però ogni tanto c’è pure qualche bella delusione”.
Si misero a ridere, poi ognuno prese la sua strada. Qualcosa dentro di lui era successo, quella città così fredda e grigia non gli sembrava più una punizione divina. Se ne andò a dormire, stanco ma felice. Un nuovo sole potentino lo stava aspettando e tra un paio di giorni sarebbe tornato a Roma per il weekend. Non vedeva l’ora di tornare nel suo mondo, tra le sue abitudini e le sue certezze. Ma c’era un pensiero che non gli dava tregua: Veronica e la loro storia d’amore, ormai arrivata all’ultimo chilometro.