Per la festa di San Gerardo a tavola due piatti dimenticati dell’antichissima tradizione potentina: gli strascinati della festa e la polpetta povera.
A proporli Antonio Sabia, simbolo insieme a Giuliano, di una nuova generazione creativa di ristoratori del capoluogo dove la cucina è uno degli elementi essenziali della potentinità. I piatti risalgono al 1800-1860 e sono stati elaborati dopo una ricerca storica di cui c’è traccia in libri dell’antropologo Ottavio Cavalcanti appassionato cultore della gastronomia del Sud.
Lo strascinato è particolare e diverso dal solito (per intenderci quello condito con il ragù potentino) perché è accompagnato da patate, olive verdi e “sarda” (alice). Le patate usate erano quelle che rischiavano di essere buttate perché “cigliate” mentre la “sarda” era il tocco di lusso che ci si poteva permettere in quei tempi per la festa.
Il secondo invece si chiama polpetta povera perché fatta semplicemente con pane, tuorlo di uovo e formaggio di vacca. I due piatti sono stati presentati alla vigilia della Festa del Santo Patrono agli ospiti abituali del risto Black Pepper di Potenza che ne hanno apprezzato gusto, rigore della tradizione e tocco di rielaborazione creativa.
Ma è possibile mangiare potentino non solo a San Gerardo e la domenica in famiglia? In città – a parte le trattorie di cucina autentica lucana – un po’ tutti i ristoranti hanno almeno un paio di piatti della nostra tradizione. Quelli che nella giornata di San Gerardo – dagli strascinati con i pezzetti di carne, alla salsiccia, alle “paste” della festa – si mangiano anche a casa. Solo che pensare di preparare piatti della tradizione potentina da offrire tutti i giorni al tavolo non è la scelta migliore. L’idea che trova il consenso soprattutto tra impiegati-lavoratori-studenti è la “rivisitazione” di alcuni piatti anche per renderli più leggeri secondo l’esigenza di quanti dopo la pausa pranzo fuori casa devono continuare a produrre.
Noi invitiamo a “mangiare potentino” perché – spiega Antonio Sabia – la cucina è un valore di appartenenza alla nostra comunità. Il menù del giorno comincia di primo mattino dal giro per i mercatini rionali dove ancora, per fortuna, arrivano prodotti del contadino di Picerno o di Tito, ecc. Abbiamo ancora la signora che ci riserva la verdura campestre e gli ortaggi dell’orto di famiglia. Poi è compito del nostro chef ripensare i piatti, abbinare i prodotti tipici con altri prodotti rigorosamente made in Italy, creare curiosità e novità per tutti i gusti e palati.
Per lo chef Roberto Pontolillo proporre piatti della tradizione potentina, cucinati come le antiche ricette della nonna, recuperando il “pezzente” e la cotica, la pasta integrale, le cicerchie, come qualche piatto rivisitato senza rinunciare ai vecchi sapori, è una nuova sfida della ristorazione del capoluogo. Un’ulteriore azione per identificare e tutelare le imprese di ristorazione che vogliono differenziarsi per la tipicità dell’offerta e valorizzare la gastronomia tipica di qualità. La scommessa – la “bellezza della salute” nel piatto – è ancora più importante da vincere nel pasto veloce “riservato” ai lavoratori che devono rientrare in ufficio o in azienda e che non possono permettersi “battute d’arresto” del cervello. I piatti sono studiati, senza stravolgere la tradizione, ma al tempo stesso non solo per il palato anche per il cervello, con il rigore della conoscenza storica.
Tutti i piatti potentini erano già conosciuti nel 1800 all’epoca in cui Riviello ambienta la sua cronaca: “Di fatti oltre i famosi strascinari, di rinomanza tutta potentina, li maccaroni a ferrett’ e la sagna, di cui si è detto innanzi, ogni buona massaia sapeva fare li laane (specie di tagliatini); li ricchitell’ o recchi di prèvire (orecchie di prete), premendo e strisciando la punta di un coltello su pezzettino di pasta, da dare loro la forma di un’orecchia; li tagliulini, o tagliatini pel lesso; e li raviuoli, la più ghiotta tra le paste, ripieni di ricotta a guisa di pasticcini, e ben conditi di brodo e di formaggio”.