Negli anni sessanta fu il ricercatore ed istruttore di nuoto, nonché medico ostetrico dell’ex Unione Sovietica, Igor Carkoskij il primo a far immergere le donne in acqua scoprendo che in essa i parti avvenivano con maggiore facilità e che l’acqua migliorava lo sviluppo dei neonati, permettendogli una maggiore indipendenza nei movimenti e un minor fabbisogno di ossigeno conseguente ad un ridotto sforzo muscolare per la ridotta forza di gravità.
L’ostetrico francese Frederick Laboyer alla fine degli anni sessanta ebbe invece il merito di aver immerso per primo il neonato in un bagno caldo subito dopo il parto, sostenendo che l’importanza di una ‘nascita dolce’ avrebbe ridotto il trauma nel passaggio dall’ambiente intra a quello extrauterino e aprendo così un nuovo capitolo incentrato sulle esigenze del bambino.
In occidente, il merito di aver utilizzato per primo l’immersione in acqua per il travaglio, spetta all’ostetrico francese Michel Odent, che nel 1977 installò nell’ospedale di Pithiviers una piscina gonfiabile riempita con acqua calda, per offrire alle donne la possibilità di un’analgesia naturale per il dolore del travaglio senza ricorrere all’utilizzo di farmaci. L’immersione era destinata solo al travaglio, ma egli notò che spesso le donne preferivano rimanere in tale ambiente anche al momento del parto senza che questo destasse particolari rischi per il bambino o per la madre.
“Per quanto riguarda la medicina dell’evidenza -spiega il dottor Sergio Schettini, direttore del Dipartimento Interaziendale Materno-Infantile (DIMI) – la letteratura internazionale, sulla base degli studi disponibili, concorda che l’immersione in acqua durante il primo stadio del travaglio riduce il ricorso all’analgesia e la percezione del dolore da parte della donna senza interferire sulla durata del travaglio, sulla frequenza del parto operativo o sull’esito neonatale. Per quanto attiene agli effetti della nascita in acqua, non vi sono consistenti studi per trarne conclusioni decise sull’esito per la donna e per il neonato e gli effetti dell’immersione in acqua nel terzo stadio del travaglio non sono chiari” e le nuove linee guida dell’ American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG). consigliano di trascorrere una buona parte del travaglio in acqua (ovviamente se lo si desidera), ma raccomandano di uscire subito prima della fase espulsiva poiché l’immersione comporta alcuni rischi soprattutto per il nascituro
“L’opportunità di travagliare in acqua – precisa Schettini – è raccomandata per l’attenuazione del dolore in alternativa o ad integrazione all’analgesia perdurare, il travaglio in acqua è associato ad un minore ricorso all’epidurale (-10%) e a una durata complessiva del parto che risulta più breve, in media di 32 minuti”.
“E’ stato elaborato un meticoloso protocollo – conclude il direttore del DIMI – su base rigorosamente scientifica che garantisce la provata efficacia dei comportamenti clinici suggeriti”.