Successo per Montedoro a Torino. Il film di Antonello Faretta ha conquistato il pubblico piemontese riempendo la sala del Cinema Massimo. Pubblichiamo una recensione di Carmine Cassino.
Esiste un richiamo all’uomo che solo la grandezza del paesaggio è capace di schiudere con quella naturalità che le è propria. A esso risponde costantemente l’anima migrante, sovente impegnata in lunga peregrinazione verso la reminiscenza delle emozioni più intime. Mediante l’imponenza di certe immagini, ella è indotta ad afferrare la terza dimensione di una memoria giammai sopita. In questo caso non si usano occhiali 3D: non vi è realtà virtuale in questo rewind psicoterapeutico, utile a far riaffiorare periodicamente ciò che è sedimentato dentro di noi, e che si manifesta con una sintomatologia irregolare. Eppure è sufficiente un comune fiore ridotto in frame a suscitare sussulto e tremore, perché in esso rivive lo sguardo della gioventù degli affetti patri, e di quelli domestici. Non è esso fotogramma di un fiore di oggi: tutt’al più, è proiezione di un senso del passato, la cui eco siamo ancora capaci di cogliere. Sintomo anch’esso di un modo di vivere, o rivivere. Così fa chi è andato via, senza aver portato via il cuore da quell’insieme informe di pietra, aria e silenzio.
È proprio questo l’intreccio emotivo percepibile nella platea che lo scorso martedì ha gremito la sala 3 del cinema Massimo di Torino, in occasione della proiezione di Montedoro, il piccolo capolavoro di Antonello Faretta. Un pubblico composto innanzitutto da occhi nati lì e piantati altrove, capaci di riconoscere ogni sottile legame chimico dell’essenza in fabula magistralmente strutturata dal regista potentino. D’altronde non poteva essere altrimenti, dal momento che la federazione dei lucani in Piemonte – la più numerosa entro i confini peninsulari – ha avuto un ruolo determinante nell’organizzazione e promozione dell’evento.
Nella più classica alterazione di personalità, ecco l’io osservante repentinamente trasformato in orgoglio migrante: ciascun lucano ha portato con se qualcun altro che lucano non è, una sorta di obbligo non prescritto che offici comunitari come questo impongono a chi vuole rivendicare il diritto all’appartenenza. Il convitato lascia che gli si mostri l’ampia prospettiva di bellezza racchiusa nel nostro sacco di iuta, che una fotografia attenta riesce a rivelare in maniera categorica. L’ingombrante protagonismo del paesaggio è di fatto ineludibile: spesso sopravanza lo stesso impianto drammaturgico che prova a misurarsi in una lotta impari, sebbene ricompensato dall’espressiva performance dei suoi protagonisti, messi in scena con perizia tipica di chi non ha timore di calarsi nella fusione tra teatro e grande schermo.
L’opera corale che ne viene fuori – corale in quanto ognuno di noi ha sussurrato in penombra la propria emozione in ogni campo lungo, superbo quello della raccolta delle messi in cui il giallo estivo della montagna materana abbaglia la stessa bellezza del gesto e della sua forma – costituisce un esemplare manifesto di quella “lucanità” che ci pose al centro della civiltà mediterranea. Briganti, emigranti e contadini, fummo una trinità che è emblema di un culto dell’identità perduta, nel bene e nel male. “Lucanità” che ben presto si traduce in una sorta di sindrome dell’appartenenza, che potremmo ribattezzare prendendo in prestito quello che fu un neologismo coniato da Alfredo Viviani a inizio novecento: “lucaneide”. Quella che porta la platea gremita a rivendicare il suo diritto alla partecipazione a questo affresco barocco, barocco perché eccessivamente nostro. L’ospite intanto si interroga sulla sfaccettatura di una realtà ancora terribilmente esotica per il consumatore metropolitano, che in quanto tale la desidera, ne brama ogni brandello di autenticità: anch’egli ben presto si tramuta in caso clinico.
Montedoro emoziona la platea, conduce nuovi accoliti sul cammino che oltrepassa Eboli, e porta all’ipogeo di quel mondo “negato alla Storia e allo Stato”, avrebbe detto Levi. Ma che vive nel ricordo di chi lo osserva ancora, da lontano, e vi ritorna, perché esso è Madre. È in suo nome che il viaggio trascende ogni umana, filiale sofferenza. L’anima si eleva nella contemplazione di un paesaggio più grande del cielo stesso. Chi ricorda seduto in poltrona riacquista se stesso, non vi è più scollamento tra il presente e la percezione di un passato e di un altrove. Soddisfatto alla fine se ne va, convinto che valga sempre la pena avere un posto come quello, e un qualche motivo, per cui tornare.
Carmine Cassino