Apparire o non apparire, questo è il problema!
Il post moderno rimodula il dilemma di Amleto, pone ognuno di noi in un limbo esistenziale e condanna definitivamente l’essenza lasciando posto alla presenza.
Solo il marchio rende visibile, lode, dunque, al segno dell’esistenza.
La dinamica dell’esserci non contempla più lo spazio, non genera più nessun tempo, anela solamente a ciò che dobbiamo indossare.
La cecità diffusa di ognuno di noi di fronte allo specchio impedisce di guardarci, eppure, durante un (break) alla macchinetta del caffè, scannerizziamo qualunque essere vivente che ci attraversa l’orizzonte.
Come un’ectoplasma passa inosservato se indossa solo abiti, la griffe ricamata sul petto lo consegna irrimediabilmente alla vita.
Cos’è che rende attraente un jeans di cotone realizzato in Tunisia, Romania o Malesya da mani sottopagate in giornate lavorative lunghe quanto il ciclo del sole?
Cos’è che ci rende così stupidi e ridicoli nel credere che un pantalone dal valore di pochi euro non può non costare meno di 150 euro?
Filosoficamente potrei rispondere la “potenza” del segno!
Non è così, però. Non confondiamo l’affascinante potenza della semiosi come procreatrice della natura relazionale e comunicazionale dell’essere umano con la stupida e illogica equivalenza prodotta dal segno della griffe.
Un’equivalenza che si autocertifica vera, in una realtà autoreferenziale, e afferma che griffe=esserci.
Ecco a noi il mondo della simulazione in cui ognuno è la caricatura, più o meno credibile, di ciò che indossa; già la maschera che ha la sua dignità storica-culturale non appartiene a questo mondo.
Cosa rimane quindi se non il mito onnipresente dell’adattamento!
Pare che al funerale della coscienza ci fosse una folla sterminata.
Tutti in fila silenziosi e piangenti e non si sentiva un passo.
Silenziosissime, queste Hogan!