C’è un sentimento (non più nazionalpopolare) che pervade l’Europa intera e gli stati nazionali che ne fanno parte. E’ un sentimento strano e inopportuno in un’Europa che si autodefinisce unita, pacifica e solidale. E’ l’invidia. L’invidia nei confronti del popolo egemone, il popolo tedesco e verso la nazione sovrana dominante, la Germania.
In Italia, per esempio, molto spesso, sia sui quotidiani più importanti sia nei programmi televisivi di approfondimento, ci si è affrettati a dichiarare pubblicamente la propria invidia verso il modello tedesco e la sua “Guida Suprema”: Angela Merkel. Le argomentazioni erano più o meno sempre le stesse. Stabilità politica, stabilità economica, PIL sempre in crescita, salari alti, bassa disoccupazione, ecc.
I tempi rapidi dei talk show e la pigrizia (a volte ignoranza) dei giornalisti ha impedito sistematicamente di approfondire la questione e di capire le reali cause che hanno generato questo “modello perfetto” e le devastanti conseguenze, sociali ed economiche, che ha partorito. In primis dovremmo ricordarci, tutti, che la Germania non era affatto quella potenza che oggi conosciamo e che, prima dell’adozione della moneta unica, era una nazione gravata da affanni economici ed occupazionali ben più preoccupanti dei paesi del sud etichettati, oggi, come PIIGS.
Ed ecco che a questo punto del ragionamento viene fuori, semplicisticamente, il concetto cult degli ultimi anni, che spegne ogni ardore di approfondimento e mortifica anche una qualsivoglia discussione: il concetto delle riforme strutturali. La Germania, dunque, oggi gode di questa invidia poiché ha attuato le riforme strutturali.
E quali sarebbero queste riforme strutturali? E cosa hanno comportato? E come si sono riversate, negativamente ( a mio parere), su tutta l’area che usa l’Euro? Domande lecite ma che non vedono mai un’esauriente risposta, risposta che aiuterebbe tutti noi a capire come il modello tedesco non è poi quella panacea raccontata.
I fatti potrebbe anche essere raccontati diversamente. E potremmo dire che sul finire degli anni 90 in Germania si attuò un rapido e doloroso programma di contenimento della spesa pubblica con una ferrea politica di moderazione salariale. Questa azione, voluta da governi socialdemocratici e negoziata con i sindacati, portò ad una profonda razionalizzazione del mercato del lavoro che cancellò l’idea dell’impiego a tempo indeterminato e creò un’ampia area di lavoro flessibile e precario, essenziale alla competitività del made in Germany che di lì a poco doveva prendere piede grazie al sistema della moneta unica (euro) e della Banca Centrale Unica (BCE).
A scapito dei salari e dei diritti dei lavoratori si è creata competitività e produttività e grazie ad una moneta, l’euro, specchiata sul marco, la Germania è diventata un paese che esporta. Ed esportando, drena ricchezza dalle aree periferiche, indebitandole. A dire il vero manca ancora un tassello. Ed è il controllo ferreo, a garanzia di queste politiche, sulla BCE. Controllo teso ad impedirle di aumentare la base monetaria, fatto questo che svalutando il valore dell’euro, aiuterebbe i paesi periferici ad essere competitivi e penalizzerebbe la Germania che vedrebbe ridotte sensibilmente le proprie esportazioni.
Basterebbe questo per rimodulare gli attestati di stima verso il modello tedesco. Modello vincente, secondo la visione liberista, ma non per meriti strutturali, come invece si propaganda.
Vincente poiché costruito con l’idea che qualcuno deve essere sconfitto, distrutto.
E quel qualcuno siamo noi, cittadini e lavoratori.
E non vedo motivi per essere invidiosi.